Aspettavamo questa settimana con l’acquolina in bocca. Il poker d’assi Scott, Kusturica, Malick e Ritchie era sul piatto da mesi, servito nello stesso fine settimana. Avevamo programmato un week-end da passare interamente in sala. E ci troviamo di fronte a un disastro. Volete i voti? Tenete presente che potremmo dar loro 10. Ma sommando i giudizi di ognuno di loro.
Fortuna che c’è Francesco Bruni, con Tutto quello che vuoi che ci emoziona, ci culla e ci fa sorridere con un’opera sincera, piena di ritmo, semplice e profonda. Alla faccia di chi dice “io? Il cinema italiano mai”. Vi meritate i maestri che copiano, anzi fanno l’autoparodia di se stessi, Natalie Portman costretta a rifare male Closer, Kusturica e Bellucci che sembrano protagonisti dei trailer di Maccio Capatonda, Scott che è rimasto agli anni ’80 (ma non si ricorda cosa faceva allora e quanto lo faceva bene), Ritchie che mette Artù a fare The Snatch, ma male. Insomma, vediamoci Montaldo che fa il mattatore e godiamo di un lungometraggio di valore: in fondo, non tutti i Malick vengono per nuocere.
Tutto quello che vuoi: 7,5
Uno di quei film che ti porti dentro, che coccoli, ricambiato, e ti portano laddove non ti aspetti. Ti sembrano semplici – gran pregio della scrittura fluida e acuta di Bruni – e intanto scavano in profondità; ti appaiano lineari e intanto, nel tuo cuore, esplorano sentieri nascosti; credi di averli dominati, di sapere dove andranno, e ti ritrovi spiazzato. Qui c’è la freschezza di Scialla! e la voglia di andare oltre, in quel caso non riuscita, di Noi 4, c’è la forza di chi parla di sé – di un padre amatissimo e a cui il film è dedicato (e da cui è ispirato) – e che non ha paura di metter dentro il cast moglie (Raffaella Lebboroni) e figlio (Arturo Bruni), e anzi c’è da dire che va bacchettato, perché i due son bravi davvero. Di lei lo sapevamo, avendo regalato la sua grazia incisiva e grintosa a molti dei migliori film – in particolare di autori toscani – degli ultimi decenni, con quelle parti piccole in cui solo le grandi attrici sanno emergere, del rampollo conoscevamo solo il talento da rapper. Ma Bruni dipinge un quadro emotivo e familiare, amicale e avventuroso che è un concerto: l’assolo di un istrionico e dolcissimo Giuliano Montaldo attore – e chi lo conosce ne apprezza ogni sfumatura -, viene accompagnato da Andrea Carpenzano, faccia antica e dialettica moderna, che interpreta ottimamente un ragazzo nato e cresciuto ai bordi di periferia che ha come unica ancora di salvezza l’(auto)ironia. E neanche tra i “gregari” il nostro sbaglia un colpo. Il resto lo fanne le musiche di Carlo Virzì, il montaggio di Cecilia Zanuso, la fotografia di Catinari, perché come nelle storie che racconta, Bruni sa che un gruppo efficace e coeso ha bisogno di eccellenze, oltre alla sua. Accogliete Tutto quello che vuoi come merita, con la purezza della fiaba che porta passato, presente e futuro in un cortocircuito generazionale (un ragazzo “badante” costretto a crescere, un vecchio poeta a tornare all’età del suo sodale per caso dall’Alzheimer, fino alla Seconda Guerra Mondiale) e capirete che questo è un grande romanzo di formazione e un inno alla memoria, non (solo) il Quasi amici italiano.
On the milky Road: 4
Intendiamoci, Emir dei quattro maestri in caduta libera è il più giustificabile: che sia un cialtrone genialoide che da anni, documentario su Maradona escluso, ci propone variazioni sul tema di Underground, è assodato. Che non abbia senso della misura, pure (guardate 7 days in Havana, se non ci credete, e scoprirete che risponde a verità). E in fondo per baciare la Bellucci tutti saremmo disposti a coprirci di ridicolo, se necessario. On the milky road è il più improbabile, scombinato, scalcagnato lungometraggio del cineasta balcanico, invaso più del solito dalle musiche del figlio Stribor e vittima di un talento senza redini che fellinianamente vuole trastullarsi con il suo giocattolo preferito, il cinema. Addirittura da attore, cosa che impone all’opera un disordine creativo quasi irritante, con intuizioni visive, narrative e tragicomiche stanche e imitative rispetto al proprio passato. Gli diamo 4 anche perché un prof generoso avrebbe messo al massimo quel voto a un tema che riassumesse la sceneggiatura di On the milky road. Monica Bellucci, che dal vivo ha carisma e intelligenza, continua a essere incredibilmente e meravigliosamente scritturata da grandissimi autori – e qui, forse, è l’unica consapevole e autoironicamente vittima dell’archetipo che incarna – ma soprattuto è inequivocabilmente Bella e impossibile. Da ascoltare: gli anni in Francia hanno reso la sua dizione umbrotransalpina un gramelot da studiare all’università.
King Arthur: 3
Due piccole premesse: chi scrive ha un’adorazione per Guy Ritchie e provava l’infondata convinzione che Artù, dopo Sherlock Holmes, sarebbe stata una scommessa vinta dall’iperbolico e inventivo cineasta. Ecco, un errore madornale. Ritchie è tra i pochi che si è potuto permettere di ideare e seguire un cinefranchise dal budget considerevole fin dall’inizio. E si vede. Ogni suo vizio e vezzo permea ogni secondo di quello che dovrebbe essere il primo di sei capitoli – se il box office risponderà bene, ma dubitiamo -, ogni suo stilema viene introdotto a forza in un classico della letteratura e dell’immaginario, come un tassello sbagliato in un puzzle. L’Artù gangster cialtrone e abile alla The Snatch, Lock & Stock e affini, le furbizie da serialità televisiva – con tanto di un paio di innesti da Game of Thrones -, l’azione più scatenata che lo fa sembrare Zack Snyder, tutto è sbagliato in quello che sembra un videogioco bruttino. Tanto che alla fine vorresti passare al quadro successivo.
Con Holmes andava bene, perché il genere lo permetteva: qui, no. Non perché non si debba scherzare con Artù (ah, sappiate che non troverete Ginevra, Lancillotto e Morgana, e Merlino sarà una comparsa di cui non scorgerete neanche la faccia: tutti sono rimandati ai prossimi capitoli) ma perché la sua modernizzazione, in caso, doveva essere ancora più estrema, non un adattamento alle debolezze artistiche di Guy.
Song to Song: 1
Abbiamo una responsabilità enorme noi critici e cinefili. Quella di aver pianto la scarsa prolificità di Terrence Malick, che a ogni uscita (decennale o persino ventennale) sfornava capolavori. La rabbia giovane forse fu il punto più alto, ma davvero era impossibile, fino a La sottile linea rossa, stabilire una gerarchia. Lui, poi, provò ad avvertirci di una precoce senilità con The New World, in cui Pocahontas incontrava le sue fisime visive tanto belle quanto, ormai, vacue (come il famoso quarto d’ora prima del tramonto in cui ama girare, per carpirne la luce dorata). Era semplicistico, superstizioso, pretenzioso, terribilmente banale e improbabile sotto ogni punto di vista. Ma noi lo amavamo troppo, e facemmo finta di niente. Così lui 6 anni dopo portò a Cannes The Tree of Life. Ricordiamo ancora le file isteriche di critici pronti a gridare al capolavoro già dai titoli di testa. E lo fecero, per un’accozzaglia new age di visioni senza dubbio potenti ma estemporanee e di una narrazione che approfittò del suo status di maestro per essere elegantemente inconsistente. Da lì non si fermò più, nel 2018 saremo, probabilmente, a sei suoi film in otto anni. Questa sua seconda parte di carriera è affetta da un incaponimento senile verso sentimentalismi da Harmony, emulazioni malcelate (il Closer di Mike Nichols è saccheggiato in Song to Song, su una base da Almost Famous minore), un’attenzione morbosa verso movimenti di macchina e soprattutto dei personaggi femminili al limite del ridicolo. Il tutto peggiorato dall’incapacità di trattenere ogni vezzo (il fluttuare degli attori, dialoghi grotteschi con voce cantilenante, un moralismo facilone) e da attori straordinari (Fassbender e Portman, ma anche Rooney Mara e Gosling, tacendo di Patti Smith e Iggy Pop nella parte di se stessi, ahiloro) che gli consegnano le chiavi della loro fiducia, ottenendo in cambio le loro performance peggiori. Propio per quanto l’abbiamo amato, ora dobbiamo riconoscerne l’inesorabile declino. Terrence fermati finché sei in tempo.