Mentre salpano per i mari burrascosi dell’estate cinematografica italiana i blockbuster americani (ahinoi, come avanguardia hanno dei pirati ben noti), si ritira il cinema italiano, che pure dà le ultime zampate ma che sembra tirare i remi in barca. Fortunatamente ci sono delle belle sorprese, ma lo saranno anche al botteghino solo se il pubblico saprà premiarli. Un poker di nuove uscite equamente divise tra opere da vedere e delusioni, più un quinto recuperato dalla scorsa settimana (anche i critici vanno al cinema per diletto, soprattutto se hanno amici, parenti e mogli che si stufano di guardare film con chi li ha già visti).
Cuori Puri: 8
A volte chi giudica può avere pregiudizi, e in fondo se sei figlio di un produttore e distributore tra i migliori per competenza e intuito, pensi che il figlio d’arte possa non comprendere una realtà periferica e emarginata, visto la vita agiata che avrà vissuto. Ma come diceva Arrigo Sacchi, per essere un bravo fantino non devi essere stato prima cavallo, quindi la superficialità del recensore viene superata da un esordio straordinariamente fresco e consapevole – e qui la famiglia avrà influito avendogli fatto respirare Settima Arte a volontà – in cui la pista (e la pietas) narrativa sentimentale sa irrompere vigorosamente e felicemente in un’atmosfera di disagio sociale ma anche morale e non moralista. Un campo Rom, una promessa a una religione e due destini che sembrano segnati diventano due prigioni da cui evadere, Roberto De Paolis abbandona ogni cliché e ci offre un amore vero – lei 18 anni, lui 25, con tutte le sfaccettature del caso – che trasuda – anche fisicamente, nei momenti rubati di una passione inevitabile e difficile da vivere – sensualità ed energia.
Il suo cinema è carnale e allo stesso tempo profondamente simbolico, è un Truffaut bello, sporco e cattivo in quegli sguardi di chi non accetta di essere rinchiuso e se lo è, prova a spezzare le sbarre. De Paolis si allontana dal cinematograficamente, politicamente e socialmente corretto per andare oltre e si fa aiutare da Selene Caramazza – ipnotica – e Simone Liberati – un Moritz Bleibtreu più maschio e potente -, che ti prendono alla gola con le loro interpretazioni, gli sguardi, la loro bellezza gentile e animalesca allo stesso tempo. E la purezza del titolo è una verginità molto più alta di quella che propone Don Luca: è la forza di rimanere se stessi, di essersi fedeli, oltre le vere tentazioni, quelle di una vita bastarda.
I peggiori: 7,5
L’avrete visto spesso Vincenzo Alfieri. È di quegli attori che fanno così bene il loro lavoro da nascondersi nei personaggi, per dar loro risalto. Da regista tiene a mente questa lezione (pur scritturandosi come coprotagonista) e ci offre una commedia sociale, moderna e precaria che ti conquista. Non solo per l’idea alla Kick-Ass, alla Deadpool, alla Hancock, che è solo pretesto narrativo, emotivo e visivo per andare oltre, ma perché Alfieri ci offre qualcosa di più, un racconto tragicomico di un disagio generazionale e territoriale, senza patetismi ma con un antieroismo populista in cui non ci sono superpoteri e i cavalieri hanno macchie e paure ovunque. I nostri si mascherano, scimmiottano Batman ma sono mercenari al servizio della verità ma soprattutto dello sputtanamento di traffichini, criminali e potenti. Buoni, ma non puri. I ritmi sono calibratissimi – più da Soliti Ignoti che da cinecomics (bravi in sceneggiatura, dove non a caso vediamo anche Alessandro Aronadio oltre a Renato Sannio, Giorgio Caruso e Raffaele Verzillo) -, le interpretazioni degli attori da manuale.
Alfieri si mette dentro i panni del suo secchione goffo a totale disposizione della sua storia, Lino Guanciale si dimostra un grande attore di commedia e in un twist – è caratteristica di tutto il film, fare inversioni a U quando immagini che vada dritto – si trasforma in affascinante cialtrone mentre i comici di professione Biagio Izzo e Francesco Paolantoni incarnano comprimari seri i cui panni indossano ottimamente. Vi divertirete, e tanto, con I peggiori e non credete a chi, con poca fantasia, pensa a Lo chiamavano Jeeg Robot. Vivono nello stesso universo, forse, ma non sono simili, al massimo complementari. E Alfieri, non prendendosi sul serio, ci fa riflettere e non di rado sganasciare. Senza mai essere scontato: prendete l’eccellente Miriam Candurro, che tutto è fuorché damigella in pericolo (anche grazie al suo carisma). Ah, segnatevi il nome della piccola Sara Tancredi, fulcro narrativo e motivazione principe della trasformazione in eroi dei nostri fratelli giustizieri: se non si rovina col crescere abbiamo la nuova Cortellesi, napoletana e più cattiva. Se non vince un premio, mi lego ai cancelli di Cinecittà.
Indizi di felicità: 7
La grammatica che in politica lo rendeva facile bersaglio – ma anche centro d’attrazione, seppur in tempi cinici, ma non è questo il luogo in cui parlarne -, al cinema diventa codice etico ed estetico, grammatica chiara ed appassionante. Certo, se voi a Walter Veltroni avete sempre dato del buonista, forse non riuscirete ad apprezzare la sua carriera da regista, ma nel suo cinema sembra scorgersi un percorso di completamento a uno storytelling di una vita che sembra inglobare nell’arte e nell’immagine tutta la strada compiuta. Indizi di felicità è un bel film e un nuovo capitolo dell’indagine sui sentimenti di una collettività a cui il cineasta sembra continuare a pensare, in un ruolo quasi ibrido, sia pure chiarissimo nelle intenzioni visive.
Veltroni racconta piccoli grandi momenti di affatto trascurabile felicità, trovando in sé la forza di nuotare nella direzione opposta, contro la corrente della percezione antropologica e filosofica moderna, pessimista e nichilista, che non sembra trattenerlo, ma solo spingerlo ad andare più a fondo. La macchina da presa indaga in coppie, in uomini e donne, sembra quasi che Indizi di felicità sia in qualche modo la fine di una trilogia costituita dal lavoro sulla memoria della politica e dei bambini fatta in passato. Ci emoziona, con l’empatia e con la non facile e mai patetica visione di un sentimento e di un’emozione, appunto, insondabile e inafferrabile come la felicità. Sembra volerci dire: non possiamo accorgercene qui e ora di essere felici, ma possiamo capire di esserlo stati. E che potremo riesserlo e che forse lo siamo. Ha l’ambizione Veltroni di essere alto e altro, anche da sé, laddove l’utopia può persino diventare patetica. Ma non in Indizi di felicità. E non lo saremo neanche noi provando a spiegare dove il regista inserisce tanto di sé e del suo vissuto in questo racconto.
2Night: 5
Hanno un navigatore, Matilde Gioli e Matteo Martari, eppure per andare al Pigneto dall’Ostiense circumnavigano la Garbatella e dintorni due volte e poi fanno il giro largo passando per il Mandrione. Sono ai limiti della fantascienza due non romani che ancora non hanno capito che il parcheggio a Roma è utopia ancor più irraggiungibile della felicità veltroniana, soprattutto nella periferia più radical chic della Capitale. 2Night ci dice altre due cose: Ivan Silvestrini è ossessionato dalle macchine (è anche il regista di Monolith, su un’auto che diventa prigione per un bimbo e impossibile da aprire per sua mamma rimasta fuori) e il cinema italiano fa ancora fatica a capire i suoi giovani.
Questa notte in cerca di una scopata facile che diventa una sorta di turning point che vorrebbe essere alla Linklater si dimentica del suo pubblico. Fossero due neopatentati potremmo credere alla loro indolenza e alla loro eccessiva pazienza, ma i nostri lavorano, sono ultratrentenni e molto fighi, è inspiegabile come per ore si sopportino l’un l’altro senza almeno limonare fortissimo in cambio di un dialogo francamente insoddisfacente. Credi loro nei rari momenti di commedia, peraltro anche riusciti (ma sono al massimo tre), mai in questo pellegrinaggio sentimentale all’interno del raccordo anulare. Sarebbe stato un cortometraggio indovinato e a suo modo irresistibile, diventa un lungo (pur breve, 74 minuti) stanco e ripetitivo. Peccato.
I Pirati dei Caraibi – La Vendetta di Salazar: 3
Fermate Johnny Depp. Subito. Sono anni che i sequel dei Pirati dei Caraibi ci fanno pentire di averne apprezzato il passato. Più tornano, più la sceneggiatura diventa debole – e qui non di rado grottesca, e non è un complimento -, i ritmi stanchi come deve esserlo quello che fa il make-up al divo maledetto (un tempo perché era un bad boy, ora dal suo pubblico perché è più irritante sullo schermo lui di Balotelli su un campo da calcio in giornata no). Ormai in un parco tematico tipo Disneyworld, anzi facciamo Cinecittà World, trovi personaggi più credibili di Jack Sparrow. Ah, caro Javier, Javier Bardem, noi fingeremo di dimenticarci che sei passato da qui. E speriamo ti abbiano pagato davvero bene.