Una dozzina, una neanche tanto sporca dozzina di uscite. Tante ne mettiamo insieme tra giovedì scorso e questo ponte del 25 aprile, in cui sembra intasarsi più del solito quest’ultima parte di primavera cinematografica, alla ricerca di un posto al sole cinematografico, per qualche biglietto in più. Per fortuna, almeno, il livello è buono.
I guardiani della galassia vol. 2: 8,5
Avventura e cialtronaggine, facce da schiaffi e questa fase tre della Marvel che funziona, anche se non pensavamo passassero tre anni per rivedere Groot e soci. Funziona tutto in questa che ormai è ufficialmente una saga, anche perché non è stata cambiata la squadra: alla regia sempre James Gunn che, perdonateci la battuta, non sbaglia un colpo, e Nicole Perlman. Risultato? Un sequel che arriva senza spoiler – vi diremo solo che cronologicamente è immediatamente successivo al primo capitolo – una direzione di attori e immagini che ci riporta al primo Guerre Stellari, un umorismo irresistibile e un’altra playlist da urlo in colonna sonora (perfettamente curata da Tyler Bates). Per non parlare ovviamente degli attori: che fossero un gruppo perfetto l’avevamo scoperto dopo mezz’ora, tre anni fa, tanto da far sembrare bravo persino Chris Pratt. Ora scusate ma vado a corteggiare Gamora e Nebula.
Le cose che verranno: 8
Se Dolan ci ha rubato occhi e titoli di giornali con i suoi film, nella nuova generazione di fenomeni non possiamo non mettere Mia Hansen-Love. Certo, 35 anni e 5 film non raggiungono il record del canadese (sei in meno di 30), ma costituiscono già una cinematografia interessante e matura, tanto da distaccarsi, qui, dalla linea d’ombra della gioventù per incontrare un’insegnante di filosofia 55enne – che bella questa nuova Isabelle Huppert, già vista in Elle, alla scoperta di qualcosa e non nella parte della nevrotica repressa e angosciante – che deve fare i conti con una rivoluzione personale e familiare. Passa, quest’ultima, anche per un ragazzo. Un joy-boy, potremmo chiamarlo, perché il rapporto intimo qui è sorprendente come il titolo originale – L’avenir -, che parla di un futuro anche per generazioni che troppo spesso pensano, e pensiamo, al passato. Cresce sempre di più questa regista, capace di scartavetrarti l’anima con eleganza e impietosa dolcezza.
L’accabadora: 7,5
Enrico Pau è un regista, è un professore, è un teatrante. E’ un uomo curioso a cui piacciono sfide complesse. Come raccontare la storia di una donna necessaria ed emarginata nella società sarda di decenni fa, colei che portava la buona morte. Nulla di più attuale, qui catapultato in una Cagliari in piena guerra mondiale, ferita come Donatella Finocchiaro, protagonista dolente e efficace. Pau ha tanti pregi, come mischiare almeno tre generi e fidarsi di un linguaggio poetico e potente che pretende la collaborazione di un spettatore attento. Ma è nella scelta delle immagini e degli attori che eccelle: azzeccato persino l’ardito Barry Ward, incastonato in un ruolo riuscito, dà il meglio con le donne. Non solo la protagonista: la Crescentini è una pennellata efficace, la Serraiocco è la star del nuovo cinema italiano, ha un talento, un istinto interpretativo che ipnotizzano. Il resto è una regia che guarda oltre e dentro, con una scrittura che sa giocarsi le sue carte sempre con uno scarto in avanti.
Acqua di marzo: 7,5
È un fine settimana in cui i big del cinema italiano inciampano e gli indipendenti danno il meglio. Ciro De Caro ha scelto un percorso difficile, indipendente nel senso più letterale del termine: economico, di contenuto, rispetto alle convenzioni. Il suo Acqua di Marzo racconta l’amore. Non quello delle nostre commedie, né di un film romantico, ma quello quotidiano, ruvido, doloroso. Quello che abbiamo per chi è nel nostro cuore, eppure sa spaccarlo, incrinandolo giorno per giorno, con la stessa capacità con cui lo infiamma. L’amore, a volte, è un male necessario ed entusiasmante, in cui due io diventano noi, e detta così se ne sente il paradosso. De Caro di Spaghetti Story si porta dietro la forza delle sue immagini e delle sue intuizioni narrative ed emotive – sa, come pochi, racchiudere delle vite in poche scene -, decidendo di sostituire l’umorismo e l’azione con la malinconia di rapporti che finiscono e si trascinano. Tutto incardinato su Rossella D’Andrea (anche sceneggiatrice), quella Neve che non ti lascia mai tranquillo, che con talento e fantasia recitativa sa portarti ovunque, che in sé incardina l’amore nella sua purezza e durezza (lei non fa sconti) e con quell’immagine finale, con quel suo nudo, spoglia noi che la guardiamo, e Claudia Vismara, che con ferocia e senza autoconsolazione, ci racconta l’irrazionalità dell’amore, la sua crudeltà, senza apparire cattiva, ma vera. E due donne così forti è bravo Roberto Caccioppoli a domarle. De Caro, che anche nei ruoli secondari non sbaglia (il prete maradoniano, i genitori di lui) deve continuare a raccontarci quello che molti di noi non amano (ri)conoscere e a farlo con il suo stile semplice e allo stesso tempo complesso.
Wilson: 7
Se metti a fare Woody Harrelson, uno dei migliori attori degli ultimi decenni (di sicuro il più sottovalutato) una sorta di variazione sul tema di Qualcosa è cambiato, dicendogli di fare un Jack Nicholson misantropo 2.0, sei pazzo. Se ti riesce, hai talento da vendere. Wilson è questo, un film su un matto e su una famiglia “per forza”, che forse ci dice che il pazzo è colui che non accetta la società, ma la critica, ne rifiuta le regole. Perché sono sbagliate e perché lui forse non brilla per coerenza ma, sicuramente, lo fa per onestà intellettuale. Uno di quei film a cui è difficile trovare sbavature e che sa fin troppo bene dove andare a parare. Un congegno ad orologeria, forse persino troppo. Ora correte a comprare il graphic novel di Daniel Clowes: se vi è piaciuto il film, ne sarete pazzi.
Baby Boss: 7
La Dreamworks ha capito che non deve imitare la Pixar, ma sfotterla. Non deve rifare Inside Out, ma provare a raccontarne il lato grottesco e politicamente scorretto. Baby Boss ci ricorda che amiamo i bambini almeno quanto ne siamo terrorizzati. E che loro non si fidano di noi, tanto che appena arriva qualcun altro, temono di perdere i loro genitori. Il bello è che poi con quel bambino Pixar, Tim, si arriva comunque al lieto fine, o per lo meno a un finale pedagogico: ricordare a genitori e figli che l’amore non è una società per azioni di cui ognuno ha delle quote, ma qualcosa di unico, in tutti i sensi. Non ripetibile, non divisibile.
Famiglia all’improvviso: 7
Omar Sy rompe ogni regola dell’attore che vuole uscire dal ruolo che l’ha reso celebre e ingabbiato. Non devi fare altro, ma devi fare quello che sai, meglio. Il padre per caso di questa commedia divertente e commovente, perfettamente scritta e più profonda di quello che pensiamo, è il fratello maggiore del suo protagonista scapestrato di Quasi Amici. E’ cresciuto e cresce davanti a noi. Aiutato dalla piccola Gloria, sa farci ridere e catturarci con il suo carisma. Senza invadere un film pieno di grazia e intelligenza. Un gioiello. Di quelli che capisci, del tutto, una settimana dopo.
Boston – Caccia all’uomo: 6
Sembra girato prima dell’attentato alle Torri Gemelle quest’americanata della miglior specie: patriottismo, uomini veri, cattivi fessissimi. Ma è una storia vera, il racconto di una maratona squarciata dal sangue versato dal terrorismo. Un incubo, seguito da una caccia all’uomo logorante di un centinaio d’ore e tutto è successo solo tre anni fa. Funziona, nonostante i suoi anacronismi. Perché di quella fiducia nell’eccezionalità di un uomo comune (ormai marchio di fabbrica della coppia Peter Berg-Mark Wahlberg), in un sistema che fa errori ma vuole davvero difenderci, nel bene che vince contro il male ne abbiamo bisogno. E forse perché in tre anni decine di attentati fanno sembrare pochi anni un’era geologica in questa guerra permanente. Quando poi il protagonista ha il volto da duro che sa piangere di un divo della porta accanto e la regia è in mano a uno che sa ciò che fa (vedere Deepwater Horizon per credere, sebbene il suo capolavoro, Cose molto cattive, l’ha fatto all’esordio), il film va via liscio. E Boston avrà il suo tributo, così come quelle quattro vittime e quasi 300 feriti, nei cartelli, nelle foto finali e in quelle splendide sequenze iniziali che mescolano finzione e realtà.
Lasciami per sempre: 5,5
I film di Simona Izzo sono come i nuclei familiari che ama raccontare: caotici, scombinati, confusi, a tratti irresistibili, con momenti di gioia unici e però anche di depressione e stanchezza. Famiglie allargate – forse troppo, per rimanere a fuoco – che vivono di individualità represse e non di rado depresse, di desideri parossistici e di egoismi paradossali, elementi tragicomici che inevitabilmente portano l’opera sulle montagne russe, dal sublime all’infimo, con facilità. Regista donna e impertinentemente maschilista, tratta meglio gli uomini (ottimo Gazzé, va detto). Lungometraggio discontinuo e fuori dagli argini, dentro però ci scorgi sempre anima, lacrime e risate. Anche se non di rado nell’ordine sbagliato.
La tenerezza: 5
Poteva essere un film bello e coraggioso. E a tratti lo è, perché non si nega inversioni a U e curve difficili, ma poi non si spinge mai oltre. C’è l’Amelio degli ultimi anni, che preferisce il patetico al pathos, che ha per le mani grandi attori (Albanese e questi meravigliosi Renato Carpentieri, nonno e nipote nell’opera, neanche parenti ma omonimi nella vita), che non sembra saper usare al meglio, come Elio Germano, Micaela Ramazzotti, Giovanna Mezzogiorno che sembrano soffrire la bidimensionalità delle loro anime tormentate. Rispetto agli ultimi due film sembra esserci una risalita dell’autore, che in alcuni momenti fa vedere il grande talento di un tempo, ma sembra lontano dalle sue vette.