Un thriller ben scritto, ben girato e ben interpretato, come non se ne vedevano da tempo. Arriva il 9 marzo su Netflix Collateral, miniserie di quattro puntate – co-prodotta da BBC2 e Netflix – firmata da “Sir” David Hare, lo sceneggiatore britannico che già in passato ci aveva regalato capolavori come The Hours e The Reader, qui per la prima volta alle prese con una serie tv.
Londra, Southwark: i fattorini di una pizzeria si spintonano al bancone del locale, in attesa che l’affannata ragazza che gestisce gli ordini decida a chi affidare le consegne. Uno di loro, Abdullah Asif, porta una quattro formaggi a una donna piuttosto sgradevole e maleducata che vive in un elegante appartamento, e, quando è sul momento di andarsene, viene freddato da un misterioso sicario appostato in un angolo della strada.
I primi dieci minuti del primo episodio potrebbero far pensare a una qualsiasi puntata di Law & Order, ma la grandezza di Hare sta proprio nel costruire una fitta trama tentacolare, dove la ricerca dell’assassino risulta secondaria rispetto a una profonda riflessione socio-politica sullo stato della Gran Bretagna post-Brexit e a una messa in discussione delle istituzioni su cui, almeno un tempo, potevamo fingere di fare affidamento. Il tema focale è quello dell’immigrazione clandestina, da lui stesso definito «la principale storia del XXI secolo», ed è attorno ad esso che si dipanano le vicende dei personaggi coinvolti: la regia di S.J. Clarkson evita gli stereotipi tipici delle fiction poliziesche, e rispetto all’azione in senso stretto indugia sui silenzi e sulla mimica facciale dei protagonisti, sottolineandone debolezze, frustrazioni, egocentrismo e meschinità.
L’amaro compito di rappresentare la falla politica è affidato a John Simm che, nei panni di David Mars, dà vita a un parlamentare laburista ossessionato dal proprio lavoro e un po’ zozzone. Piegandosi anch’egli all’isteria collettiva dei “confini aperti”, mostra la grave crisi in cui il proprio partito è piombato da anni, e la sua scarsa solidità si manifesta nel non riuscire nemmeno a contenere l’eccitazione del giornalista precipitatosi sulla scena del crimine, pronto a etichettare la morte di Abdullah come l’ennesimo «omicidio musulmano».
Le vere regine di Collateral sono però le donne, e ciò non stupisce, dato che Hare ha all’attivo la scrittura di parecchi riuscitissimi ruoli femminili: in primis la detective con un passato da campionessa di salto con l’asta Kip Glaspie, interpretata da Carey Mulligan, che ha partecipato attivamente allo sviluppo della sceneggiatura, prendendo parte alle riprese mentre era al suo sesto mese di gravidanza. Kip sorride raramente, è determinata, sarcastica, di poche parole e non accetta un “no” come risposta: questa sua glaciale compostezza costituisce il leitmotiv di una performance sobria, ma ricca di sfumature, alla quale Mulligan ha lavorato a lungo per trovare il giusto equilibrio sulla sottile linea che separa la mera freddezza dall’empatia.
Dall’altro lato, Billie Piper brilla di luce propria mettendo in scena Karen Mars, ex moglie del già citato David, madre single disoccupata, fumatrice incallita, arrogante ed egoista, priva di quel minimo sindacale di istinto materno a cui la narrazione televisiva ci ha abituati. Karen è l’ultima persona ad aver visto Abdullah vivo, ma non sembra minimamente scossa dall’omicidio che si è consumato fuori da casa sua, anzi: la sua preoccupazione è tutta rivolta verso la pizza consegnatale, scaraventata in modo misterioso contro il muro senza venire manco assaggiata.
Il cancro della società dipinta da Collateral è la corruzione, peccato di cui si macchiano, seppure in forme diverse, anche la Chiesa e l’establishment militare. Nicola Walker e Jeany Spark, con le loro splendide interpretazioni rispettivamente del reverendo gay Jane Oliver e del capitano Sandrine Shaw vanno ad aggiungersi al manipolo di personaggi che agiscono per assecondare una personale convenienza, pronti a infrangere la legge e a calpestare cadaveri (sia in senso letterale, che figurato), pur di ottenere ciò che desiderano.
Non c’è salvezza, non c’è redenzione, non c’è luce: il racconto dei quattro giorni e delle quattro notti successive alla morte di Abdullah ricorda il magistrale State of Play di Paul Abbott, e mentre l’eroina (o forse è meglio dire antieroina) Kip Glaspie – l’unica anima “pura” della serie – tenterà di dare un senso al rumore intorno a lei, lo spettatore è obbligato a un’amara resa dei conti con le responsabilità di una società sempre più egoriferita e sorda di fronte alla richieste d’aiuto di chi ne è sistematicamente tagliato fuori.