Seeyousound, la musica prende vita al cinema | Rolling Stone Italia
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Seeyousound, la musica prende vita al cinema

"Music comes alive" è il sottotitolo della terza edizione della rassegna che porterà a Torino, dal 27 gennaio al 4 febbraio, uno sfaccettato universo di lungometraggi, cortometraggi, documentari e videoclip. Per l'occasione, vi presentiamo in anteprima i film della sezione "Into the groove"

Seeyousound, la musica prende vita al cinema

Chet Baker, 1950 circa

“Liberation Day” di Uģis Olte e Morten Traavik (2016)

La prima rockband ad essersi mai esibita in Corea del Nord è una band slovena, che nasce jugoslava (all’indomani della morte di Tito). Da sempre al centro di polemiche per l’uso sfrontato di un’estetica nazifascista, oppongono uno strenuo rifiuto a essere identificati con qualcosa, anche solo un genere musicale definito, si tratti di rock, pop, industrial o techno. Si definiscono “specialisti di anime”. Sono i Laibach.

Sotto la guida – registica e diplomatica – di un fan di vecchia data, si apprestano a liberare le loro canzoni di fronte ad un pubblico totalmente digiuno di rock’n’roll e ignaro del suo potere, affrontando l’ideologia del regime, la ferrea censura e le differenze culturali. Sono qualcosa di completamente diverso da tutto ciò che i Nordcoreani possano aver mai visto, eppure hanno qualcosa di familiare nello stile, nell’immaginario, nella musica, qualcosa che li avvicina alle parate militari e agli arrangiamenti orchestrali solenni e pomposi. In realtà, anche nei testi, se si guarda ai loro vecchi successi con le cover di Life is life o One Vision, si scorgono frasi che potrebbero essere tratte dal programma del Partito dei Lavoratori di Corea. Anche questo è paradosso, e con il paradosso inizia lo smantellamento delle certezze. La loro cifra è precisamente questa: plagiare il linguaggio estetico dei totalitarismi, creare parallelismi tra arte e potere, rendersi specchio di una realtà per decostruirla, boicottare la manipolazione adottando i suoi medesimi strumenti. Slavoj Zizek ha detto di loro che le sembianze fasciste che ci turbano sono da guardare con favore proprio perché non sono “satira”, quanto piuttosto un modo tremendamente serio di incarnare il potere brutale che si annida in ogni forma di governo che si ammanti di un’apparente razionalità.

Si tratta per l’appunto di una “liberazione”, una sorta di reazione dello spettatore – occidentale o nordcoreano – anche nei confronti della propria visione del mondo. Sarà almeno libero di chiedersi se sia davvero convinto di sapere come stanno le cose.

 

“Born to be Blue” di Robert Budreau (2016)

Un frammento della vita del jazzista Chet Baker, quello più importante. Il ritorno sulle scene dopo un’assenza prolungata. Una fase critica, creativa, tormentata. Un Ethan Hawke sopra le righe, supportato da un cast ben diretto da Budreau.
Un racconto intimo e lirico, come il jazz suonato da Baker. Il jazzista americano ha sempre dovuto lottare per emergere al cospetto dei grandi trombettisti black, Miles Davis in particolare. La sua musica, lo dicono gli esperti, non è mai stata all’altezza dei grandi della tromba, ma ciò che ha reso unico il jazz di Baker è la sua voce. Una voce calda e dolce, delicata e innocente, un unico nella storia del jazz. Hawke ha trovato molte affinità con Baker. Entrambi hanno ottenuto grandi riconoscimenti all’inizio della loro carriera, entrambi hanno dovuto lottare per riconquistare il successo. Baker, dopo aver sfondato quando aveva 20 anni, si è ritrovato ai margini dell’industria musicale a causa della sua dipendenza e dopo un infortunio ai denti che lo ha costretto a imparare di nuovo a suonare. Hawke invece è entrato nello star system giovanissimo, a 18 anni, grazie alla sua interpretazione in Dead Poets Society (1989); tanti, da allora, hanno sempre paragonato l’Hawke che vedevano sullo schermo con l’Hawke di quel film.

Entrambi gli artisti hanno dovuto lottare per emergere dall’ombra e conquistarsi la propria unicità lontano dai paragoni. Entrambi hanno dovuto reinventarsi e cambiare per far vivere la loro arte.
Chet, nonostante il malessere, nonostante la maledizione, ha continuato ad affascinare e a stregare musicisti e ascoltatori no ad oggi, anche se non ha mai trovato la pace.

“The Promised Band” di Jen Heck (2016)

La regista Americana Jen Heck ci racconta la storia di Lina: moglie, madre, musicista, insegnante che vive a Nablus, in Palestina. Grazie all’idea di creare un’ipotetica band al femminile, Lina incontra tre donne Israeliane.
La musica diventa un pretesto per raccontare e superare confini invalicabili. Storie di donne, storie di amicizia.
Un viaggio attraverso una terra di confine tra Palestina e Israele vissuto con gli occhi di un’outsider, la regista, dove Lina, Sholomit, Viki, Noa Alhan si raccontano. Oltrepassare i confini anche in modo illegale rafforza la loro amicizia e ognuna di loro conosce meglio se stessa attraverso la relazione con le altre. Il viaggio che intraprendono le porterà a scoprire territori inesplorati e cambierà la vita di Lina in modo inaspettato. Il film ci regala sorrisi ed emozioni con la giusta leggerezza, ingredienti fondamentali di una complicità femminile. Film vincitore del Cinequest San José Film Festival 2016 nella categoria Best Documentary.

“Stronger than Bullets” di Matthew Millan (2016)

2011. La popolazione di Bengasi si ribella contro il regime di Mu’ammar Gheddafi. Parallela alla guerra un’altra rivoluzione, una rivoluzione culturale, si fa strada. La musica e la libertà di espressione artistica, uccise dal dittatore, riprendono voce e danno vita a una breve stagione di libertà.
Il film racconta la nascita di questo prorompente movimento di liberazione in tutta la sua potenza. Musicisti che imbracciano i fucili, musicisti che usano la musica come strumento di lotta, musicisti che tornano a casa per partecipare a questa rivoluzione che sembra portare a un cambiamento definitivo. Dopo 42 anni di proibizionismo, la musica torna ad essere suonata in Libia.

Questo documentario sorprendente, pieno di vita e carico di emozioni, già recentemente vincitore del Woodstock Film Festival, è presentato in Italia in anteprima assoluta.
Il regista, Matthew Millan, che ha esordito alla regia con un cortometraggio documentario sempre girato in Libia, We Win or We Die (2011), ha scelto di nuovo la Libia per questo suo secondo lavoro.

“Quando ho passato il confine e sono entrato nella polvere della rivoluzione, sono stato colpito da quello che ho visto. Spirito di cooperazione e una gioia incontrollata che facevano da vibrante contrasto all’insicurezza, al caos e alla distruzione che circondava tutti. Questa forza di spirito si è manifestata in molti modi: gente che puliva le strade, bambini che dirigevano il traffico e un’esplosione musicale che mi ha ricordato la controcultura degli anni ’60. Dal blues al country, dall’heavy metal all’hip-hop, la gioventù libica con la voglia di sfidare la dittatura è uscita allo scoperto in massa, per la prima volta, per esprimere con la forza dirompente del rock’n’roll questo spirito di scoperta libertà. Questo documentario non è solo un resoconto di questa abbagliante fioritura musicale nel mezzo di una rivoluzione sanguinosa. È una travolgente odissea rock che segue dei musicisti determinati a suonare anche nella più atroce delle condizioni. In un mondo polarizzato, le nostre idee sono modellate da slogan che mettono in evidenza le differenze tra i popoli invece che porre l’accento sulle similitudini. Ecco perché credo che Stronger Than Bullets sia una storia importante da raccontare, perché fa da ponte e mette insieme universi diversi, sottolineando quello che tutti abbiamo in comune.

 

“Piano” di Vita Maria Drygas (2016)

Un pianoforte appare nella piazza (Maidan) in cui sta infuriando la rivoluzione ucraina.
La studentessa del Conservatorio Antuanetta Miszczenko vede tre uomini trasportarlo per servirsene come pezzo di una barricata, a protezione dei manifestanti dai proiettili dei militari.
Per la giovane pianista questo strumento è sacro, e decide di difenderlo.
Promette di tornare ogni giorno a Maidan a suonare Chopin e l’inno dell’Ucraina per salvare il pianoforte.
La sua insegnante del Conservatorio, Lyudmila Chichuk, nonostante le mani fragili da pianista, sta contribuendo a costruire le barricate. E così, quando incontra Antuanetta, si unisce a lei: nonostante i -20 gradi che congelano i tasti, cominciano a dare un concerto per le persone riunite sul Maidan. Intonando inni e canti nazionali, la popolazione si unisce e incoraggia a resistere.
Il pianoforte diventa a questo punto un simbolo della Rivoluzione Ucraina e comincia a muoversi. Dove succede qualcosa di importante, il pianoforte appare. Viene portato anche davanti al Parlamento a “fronteggiare” la polizia armata. Ora Chopin è usato per resistere e combattere nelle piazze.
Le forze armate russe rispondono sistemando un grande impianto di amplificazione che diffonde a tutto volume musica pop russa. In questo modo l’autorità vorrebbe soffocare il suono dello strumento, che, invece, mentre le prime vittime cominciano a morire, risuona ancora più forte. Non solo: in molte piazze cominciano a comparire altri pianoforti, che diventano il simbolo musicale della resistenza civile. Per la polizia diventano gli ‘’estremisti del piano”, e molti dei pianoforti vengono distrutti durante gli scontri.
Ma nonostante questo, ormai, la scintilla ha acceso i cuori dei rivoluzionari.

“Bjork” di Tita von Hardenberg e Hannes Rossacher (2016)

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Musicista, attrice, visionaria, video artista, compositrice. Björk è una delle artiste più versatili, eclettiche e influenti del nostro tempo. Fin dal suo esordio musicale, Björk ha costantemente ridefinito il processo di creazione della musica, abbattendo i limiti dei generi artistici. Per tre decenni Björk utilizza il potere delle immagini e la propria personalità per trasmettere attraverso la sua musica emozioni indimenticabili. I suoi video musicali son il risultato di collaborazioni uniche con artisti e musicisti, rappresentano pietre miliari di riferimento nel mondo della video arte. Per celebrare il suo 50esimo compleanno il MoMa di New York le dedica una retrospettiva.

Björk non vuole solo essere creativa lei stessa: vuole trasmettere la sua conoscenza. Il documentario esplora l’anima e l’universo creativo di Björk attraverso la musica di “Vulnicura”, il suo ultimo album. Una biografia (in assenza) dell’artista islandese. Un viaggio nel suo multiforme talento artistico e musicale, attraverso l’Islanda, Londra, Parigi e New York.

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