Il cinema di Todd Hayes dialoga da sempre con il rock e la canzonetta. E non solo perché ha le colonne sonore più curiose e scatenate degli ultimi vent’anni e piu’. Haynes mise in scena, per cominciare, l’esistenza melodrammatica di Karen Carpenter – la cantante pop morta di anoressia a 33 anni – animando le Barbie. Fece recitare il Bob Dylan schizoide del ‘65 a Cate Blanchett, meravigliosa in quella non-biografia sospesa tra invenzione e ricalco virtuosistico di materiali d’epoca. Gay dichiarato, Haynes ha raccontato David Bowie e la libertà sessuale del glam-rock in Velvet Goldmine come pochissimi critici e storici sono stati in grado di fare (l’ultimo libro di Simon Reynolds Shock and Awe torna di nuovo a parlare del glam e del suo significato a a quasi 20 anni dal film presentato a Cannes).
Proprio Space Oddity di David Bowie è la prima canzone che ascoltiamo su un giradischi con Ben, dodicenne nel 1977 in una casa che non è la sua, accudito da un’altra famiglia dopo la morte della madre Elaine in un incidente. Space Oddity perche’ Wonderstruck, il nuovo film di Haynes, tratto dal libro di Brian Seltzinck (anche sceneggiatore del film), ci chiede immediatamente di entrare nella testa dei ragazzini di dodici anni, nella loro solitudine immensa, nel vortice delle loro emozioni, nella voglia insieme di scomparire e trovare un posto nel mondo, come solo quella canzone di Bowie sapeva raccontare.
Ben deve scoprire che fine ha fatto suo padre, il cui ricordo è legato soltanto a un vecchio libro sulla storia dei “gabinetti delle meraviglie” settecenteschi, antenati dei musei moderni. Colpito da un fulmine mentre perlustra la vecchia casa di mamma Elaine perde l’udito, e durante il ricovero in ospedale scappa a New York seguendo le poche tracce che ha trovato: il nome di una vecchia libreria, il gabinetto delle meraviglie nelle sale del museo di storia naturale. Sono gli anni ’70, New York è la citta’ piu’ colorata e scassata del mondo. Haynes si diverte enormemente a camminarci dentro (sulla musica di Also Sprach Zarathustra di Eumir Deodato) Solo che Ben non può sentirla. Ben non sente nulla.
In parallelo Wonderstruck racconta ancora del silenzio ma con il bianco e nero del cinema muto: l’anno è il 1927 e la storia è quella di Rose (l’attrice esordiente Millicent Simmonds), una ragazzina non udente figlia di un star del cinema, trattata freddamente dal ricco padre col quale vive. Sola e senza amore, anche Rose fugge di casa verso la grande metropoli dei grattacieli e delle luci, coi capelli tagliati corti e crespi come una figurina chapliniana. Incontrerà sua madre in un teatro e il fratello impiegato al museo di storia naturale. Resterà ipnotizzata dal grande meteorite che un tempo fu una stella cadente. C’è un uomo delle stelle su nel cielo che ci aspetta e ci protegge, avrebbe cantato ancora Bowie. Sopra la pietra Rose lascia una delle barchette di carta con le quali dissemina il mondo: aiutatemi, c’è scritto.
Sono legate le storie di Ben e di Rose, nonostante i 50 anni che le separano. Wonderstruck, per spiegarci questo legame, mette insieme tutti i pezzi come un puzzle, un grande gioco di costruzioni. Usando la musica (Bowie, Fripp e Eno, Deodato), riscoprendo il linguaggio dei segni, scarabocchiando frasi e parole sui taccuini.
Brain Selznick era stato già al cinema con Hugo Cabret di Scorsese, ma dalla messa in scena di Todd Haynes guadagna enormemente. Quella di Haynes è una lettura sottilmente sensoriale di musica e silenzio, parole e gesti, di luci e buio (il 1977 è l’anno del grande black out a New York). E’ una lettura critica di una delle stelle nascenti della letteratura per ragazzi, come sempre riempita dalle ossessioni del regista; Bowie, il cinema muto, il melò anni 50, gli anni 70 e la storia di New York. Applausi in sala.