Nel corso dei cinquant’anni passati in giro per il cosmo e dentro l’immaginazione della popolazione di mezzo pianeta, Doctor Who ci ha offerto un’ampia scelta di filosofie di vita: “Vai fino in fondo per quello in cui credi”. “Non ha senso essere adulti se non si torna un po’ bambini, ogni tanto”. “Alla fine, siamo solo delle storie”. “Le banane sono buone”. Con la premiere dell’undicesima stagione, però, l’ultima incarnazione del Time Lord che viaggia nel tempo, salta tra galassie e salva intere specie ci ha regalato la più potente di tutte: “Siamo tutti capaci di cambiamenti incredibili”.
Il cambiamento, appunto, è scritto nel DNA dello show. Molto ha a che vedere con il messaggio di speranza e progresso che la serie ha sempre cercato di incarnare, ma ci sono anche ragioni pratiche. Doctor Who può andare avanti all’infinito perché il suo protagonista può cambiare corpo ogni volta che l’attore che lo interpreta decide di smettere. In 54 anni di storia, sono 12 ad aver interpretato il ruolo – 4 negli ultimi 13 anni, cioè dalla resurrezione dello show del 2005. Ma nessun cambiamento è lontanamente paragonabile con prima rigenerazione del Dottore nel corpo di una donna.
Come succede con tutti i franchise più amati dai fan, l’annuncio del passaggio di testimone da Peter Capaldi a Jodie Whittaker (con un nuovo showrunner, l’autore di Broadchurch Chris Chibnall) è stato accolto sia con euforia che con disperazione. La verità sta nel mezzo, e quello del debutto di Whittaker – The Woman Who Fell to Earth – è un episodio con le radici ben piantate nella tradizione di Who, ma capace di percorrere una strada nuova e delirante.
Dopo sei stagioni scritte da Steven Moffatt – famoso per intrecci complessi e sperimentali che hanno fatto girare la testa un po’ a tutti – la mitologia del personaggio era diventata così convoluta da essere indecifrabile per un pubblico nuovo o occasionale. La nuova stagione entra in questa giungla armata di machete, e ci regala un nuovo inizio. Siete gli ultimi arrivati in questo universo? Non vi dovete preoccupare, lo è anche il Dottore.
Fresca di rigenerazione e lontana dal suo TARDIS (la cabina della polizia blu che le permette di viaggiare nel tempo e nello spazio e che, se siete davvero appena arrivati, è bigger on the inside) , il Dottore della Whittaker precipita sulla terra indossando gli abiti oversize del suo predecessore. È confusa e si deve ancora abituare al suo corpo. «Perché mi chiami signora?», chiede al primo umano che incontra. Quando scopre di essere davvero diventato una donna, spalanca gli occhi per la sorpresa: «Davvero? Mi sta bene?».
Ma non c’è tempo per preoccuparsene, perché la signorina ha un po’ di extraterrestri da abbattere ASAP – in questo caso, una creatura con tentacoli elettrici e una specie di Power Ranger gotico. Non sarebbe Doctor Who senza qualche mostro a mettere in pericolo la Gran Bretagna, e senza uno o più umani maldestri ad accompagnare l’alieno nelle sue avventure. I nuovi companion rompono il solito schema della “ragazza goffa in cerca di avventure”. Siamo di fronte a un quartetto: la teenager Ryan Sinclair (Tosin Cole); la poliziotta in addestramento Yasmin Khan (Mandip Gill); la tata di Ryan, Grace (Sharon D. Clarke); e suo marito Graham (Bradley Walsh). Sono loro ad aiutare il Dottore a costruire un nuovo cacciavite sonico, e a sconfiggere il mostro della settimana.
A proposito, il mostro della settimana è la personificazione del maschilismo più tossico: un alieno che arriva da un pianeta dove gli innocenti sono cacciati per scalare una specie di classifica mondiale. Quando il Dottore lo sconfigge rivoltandogli contro le sue stesse armi, dice: «Avevi una scelta. Hai fatto tutto tu. Vai a casa».
È uno dei tanti momenti dell’episodio in cui la sceneggiatura funziona da risposta ai fan più scettici. «Non abbiate paura. È tutto nuovo e so che può sembrare spaventoso», dice il Dottore a Graham. Poi, durante la resa dei conti, aggiunge: «Possiamo evolvere e restare comunque noi stessi. Possiamo rendere onore a quello che siamo stati e scegliere cosa vogliamo essere in futuro». È tutto un po’ inflazionato, lo so, ma cercate di capirmi: sono una fan di Doctor Who dal 2005, da quando Christopher Eccleston ha detto per la prima volta “RUN!” A Billie Piper, e ho sempre amato il suo particolare tipo di eroismo. Sapete di cosa sto parlando: il cervello batte i muscoli, poteri straordinari bilanciati da una saggezza autodistruttiva, curiosità senza limiti, oscurità nascoste, capacità infinita di meravigliarsi e altrettanta compassione anche per le creature più mostruose.
Attraverso tutte le sue incarnazioni, lo show ci ha fatto immaginare un universo di possibilità infinite, e sembrava sempre più assurdo vedere il protagonista interpretato da una serie di tizi bianchi. Certo, i 12 attori che hanno abitato il TARDIS sono stati grandiosi, così come le donne che li hanno accompagnati, ma sono anni che aspetto il giorno in cui la rigenerazione avrebbe rivelato una faccia davvero diversa da quelle a cui ero abituata da sempre.
Il Dottore è sempre la persona più intelligente e capace dell’universo, questa è una verità accettata in tutte le incarnazioni dello show. Vedere una donna in questa posizione, dopo cinque decenni di mansplaining alieno, è un evento da non sottovalutare. Il mondo reale è ancora parecchio lontano, ma per quanto riguarda quello della fiction siamo di fronte all’equivalente sci-fi di una donna presidente.
Jodie Whittaker fa sua la parte dal primo istante in cui entra in scena. Come tutti i Dottori, all’inizio è un delirio di energia e battute sagaci. Tuttavia l’attrice è riuscita a portare qualcosa di diverso nel personaggio, qualcosa che la rende diversa da tutti quelli che l’hanno preceduta: la disponibilità emotiva. Prendete per esempio la descrizione che fa della sua rigenerazione: “C’è un momento in cui sei certo di dover morire. E poi… nasci ancora! È terrificante”. Le vecchie incarnazioni nascondevano i loro sentimenti in profondità; Whittaker li lascia liberi, e non sarà certo questo a renderla meno formidabile.
C’è un momento, in tutti gli episodi di Doctor Who, in cui l’eroe si ribella contro il cattivo di turno, solleva le spalle e urla: “Io sono il Dottore”. È ripetitivo, stereotipato ed elettrizzante; è un mantra che è anche la dichiarazione d’intenti di un supereroe determinato a combattere ingiustizie attraverso il tempo e lo spazio. E quando arriva il turno di Whittaker – grandiosa dentro gli abiti rovinati e sformati del suo vecchio corpo – ho senti un brivido lungo la spina dorsale.
Per la prima volta in mezzo secolo le donne non sono più sul sedile del passeggero del TARDIS. Adesso siamo le fottute regine del tempo e dello spazio.