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Esce il documentario “Italian Punk Hardcore 1980-1989”

Abbiamo parlato con Giorgio S. Senesi, uno dei tre registi del lavoro titanico sulla scena da cui sono nati i Negazione, i Wretched e molte altre band storiche.

A partire da lunedì 7 settembre sarà disponibile in DVD il documentario Italian Punk Hardcore 1980-1989, un resoconto dalle alpi alle isole del decennio di massimo splendore della scena punk hardcore. Un lavoro titanico messo insieme da Angelo Bitonto, Giorgio S. Senesi e Roberto Sivilia, tre componenti di quella scena che hanno deciso di documentare raccogliendo ore di interviste originali e materiale d’archivio unico, sia in video che in fotografia. I protagonisti del film sono personaggi chiave della scena e una cinquantina di band – tra cui Raw Power, Wretched, Negazione, CCM, Indigesti, Kina, Peggio Punx, Impact, Upset Noise. Abbiamo parlato con Giorgio S. Senesi di come è nato il progetto, di cos’era la scena e di cosa è rimasto di quegli anni ’80.

Qual è stato il processo di creazione del documentario?
Noi tre siamo cresciuti nella scena punk hardcore di quegli anni a Bari, io avevo un’etichetta discografica che si chiamava Mele Marce, e gli altri due registi, Roberto e Angelo, facevano parte della band Androfobia, e ci siamo conosciuti lavorando a un loro disco. Poi sono andato via dall’Italia, e una volta tornato mi è venuto in mente di documentare il periodo che avevamo vissuto nel sito LoveHate80, e uno dei primi progetti a cui abbiamo pensato era un libro – che uscirà a breve con il titolo “Dritti contro un muro”. Negli anni abbiamo fatto uscire la doppia compilation Hate/Love e la raccolta di fanzine di Stiv Valli Teste Vuote Ossa Rotte. Il lavoro sul film è iniziato nel 2003, con le prime riprese, ma il primo trailer è uscito nel 2013, e ora siamo riusciti a distribuirlo. Non è stato semplice realizzarlo, visto che non siamo registi o giornalisti e abbiamo dovuto fare tutto nei ritagli di tempo.

Come avete selezionato le band intervistate?
La selezione è stata naturale. Ho cercato di trovare tutti quanti, in tutta Italia, isole comprese. Il nostro intento era caratterizzare tutto quello che è successo anche nei luoghi più lontani. Sono partito dai miei contatti, ma alcuni sono stati un po’ diffidenti – e qualcuno ha avuto poi da ridire perché non è apparso nel documentario. Abbiamo preparato delle domande chiave sulla musica, i luoghi di aggregazione delle varie città, e abbiamo raccolto un’ora di intervista per ognuno dei 60 gruppi e personaggi che abbiamo intervistato. Estrapolare due ore di documentario da 60 ore di girato è stata un’impresa. Non è un lavoro onnicomprensivo, ma si avvicina molto alla nostra idea iniziale.

Il materiale di archivio da chi è stato girato? È materiale recuperato, girato con difficoltà in quegli anni, visti i costi delle attrezzature e visto anche il fatto che i giornalisti venivano tenuti lontani da quei posti – c’è sempre stata sfiducia verso la stampa perché non vedeva di buon occhio i punk e raccontava il movimento come un fenomeno da baraccone.

Come era percepito il punk negli anni ’80 in Italia?
Era diventato un fenomeno di moda, con gruppi come la Kandeggina Gang o i Decibel di Enrico Ruggeri, ma quelle erano cose costruite per fare business, niente a che vedere con la scena che documentiamo noi. Le band della scena punk hardcore non cercavano il successo, se ne fregavano dell’uso commerciale. Il distacco era netto tra la parodia del punk che finiva anche a Sanremo e le band anche più grosse, come i Gaznevada di Bologna. Non c’era nessuna relazione.

C’erano differenze tra le grandi città e la provincia?
Sì, ovviamente chi stava a Milano aveva più possibilità di girare, di andare a Londra e avere notizie di prima mano – così ad esempio è nata l’esperienza del Centro Sociale Virus di Milano, su ispirazione delle realtà londinesi. In alcune città si creavano spontaneamente grosse comunità, si aprivano posti autogestiti dove fare concerti, c’erano band con un suono fortissimo – come a Ferrara gli Impakt o ad Alessandria i Peggio Punx – , ma le informazioni che arrivavano erano frammentate. Tutto quello che potevamo sapere sulle altre band punk hardcore lo scoprivamo o dai racconti di altri o per via epistolare. Ma il desiderio di realizzare qualcosa era così forte che si mettevano insieme anche le informazioni più frammentarie e si creava comunque. Era una questione di circostanze: nel 1979 i Cheetah Chrome Motherfucker di Pisa suonavano come le band di Washington alla Minor Threat, senza essersi ascoltati reciprocamente.

Nelle grandi città forse c’era il rischio che i gruppi scimmiottassero la scena londinese?
Gruppi milanesi come i Wretched venivano paragonati a Disorder o altri gruppi inglesi, ma ogni gruppo italiano aveva il suo tocco, non solo per i testi in italiano. Magari l’idea del genere era più chiara perché avevano avuto modo di ascoltare meglio quelle band, ma il suono era unico.

Ci sono stati negli anni delle divisioni all’interno della scena?
Diciamo che le varie band avevano caratteristiche diverse, c’erano quelle che avevano testi più politicizzati come i Wretched oppure quelle con testi più intimisti. Il momento di massima attività è stato da 1982 al 1986, a quel punto sono cambiate le circostanze, i luoghi di aggregazione erano diversi e alcuni gruppi più rodati hanno provato nuovi generi, come l’hip hop o il reggae – e il pubblico non stava dietro al cambiamento. La comunità punk poteva essere accogliente, ma non digeriva il cambiamento. Poi i centri sociali hanno chiuso, e non c’era più l’urgenza della prima ora, e alla fine degli anni ’80 il movimento è scemato.

I gruppi che avete intervistato che tono avevano rispetto a quel periodo e come parlano del presente?
Non c’era nostalgia o rammarico nel loro racconto. Considera che la maggior parte di loro non cercava la fama, sapevano che era un’esperienza divertente di evasione da vivere giorno per giorno. Magari fatta anche con il pensiero di cambiare il mondo, ma la chiusura di alcuni posti come il Virus su cui molti avevano investito ha comunque ridimensionato le aspettative. Molti non fanno raffronti con il presente, il commento classico è che le cose sono cambiate. Personalmente trovo che ora manchi l’urgenza e il desiderio di fare che c’erano in quegli anni, e una delle ragioni è la facilità con cui si trovano le informazioni che si desiderano online. Allora avere il disco tra le mani, leggere i testi, ascoltarlo la prima volta, era esaltante. E ancora oggi, se voglio sentire dei suoi seri e potenti, devo riprendere in mano quei dischi.

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