Rolling Stone Italia

Elvis & Nixon: rockstar a confronto

Nel 1970 Elvis incontrò per davvero Nixon. Al cinema quell’incontro diventa una storia assurda, ma in fondo la realtà ci ha vaccinati a ben peggio

Scritturare Kevin Spacey per interpretare Nixon, lui che è ormai indistinguibile dal luciferino Frank Underwood, è un notevole colpo di metateatro: non si capisce dove finisce l’attore e inizia il personaggio, dove s’eclissa la figura storica e inizia la proiezione di una puntata vintage di House of Cards.
E a intrecciarsi con questa vecchia storia quasi vera c’è una campagna elettorale, quella del 2016, che è verissima, per quanto a tratti surreale. Nella conferenza stampa per la presentazione di Elvis & Nixon al Tribeca Film Festival si parla di Elvis (Presley) e di (Richard) Nixon, com’è ovvio, ma in sottofondo aleggia chiaramente Donald Trump, fenomeno pop e populista di caratura analoga a quella proiettata in sala. «Ti vedrei bene nel ruolo di…», fa Spacey a Colin Hanks, che nel film è Egil “Bud” Krogh, uno dei due consiglieri presidenziali giovani, carini e con il senso dello storytelling, ma che nella prosa della realtà finisce al fresco per il Watergate. «Non dirlo! Non dirlo!», s’affanna quello. «…nel ruolo di Ted Cruz volevo dire, dai!».

Questa vicenda ha, appunto, due protagonisti. Uno è la rockstar scolpita nella leggenda che indossa cinture dorate e si spruzza malinconicamente la lacca in bagni stile Luigi XIV, un intrattenitore paranoico che subodora ovunque complotti dei comunisti e, per motivi oscuri ai più, disperatamente cerca la legittimazione dell’establishment di Washington. Ha un ego smisurato e, quando tenta di entrare alla Casa Bianca dal cancello nordovest, ha ancora la sua pistola d’oro infilata nel calzino. È circondato da un’improbabile schiatta di bravi che ricorda molto da lontano l’epica ambigua della “Memphis Mafia”. L’altro è un Presidente cinico e stolido, al quale sulle prime sfugge il motivo per cui dovrebbe incontrare questa celebrity globale, sottraendo tempo prezioso alle telefonate con “Henry” (Kissinger) sulla solita crisi in Iraq. Il suo capo di gabinetto, H.R. Hadelman, scrive una nota a margine della richiesta di incontro: “You must be kidding” (lei sta scherzando, ndr), ma s’ammorbidisce quando gli spiegano che la rockstar in questione fa presa sull’elettorato giovane del Sud in rapida transizione da sinistra a destra. Appone le sue iniziali vicino alla casella “approvato”.

Kevin Spacey nel ruolo di Richard Nixon in Elvis & Nixon

 

«Chi cazzo ha fissato questo incontro?!» è la delicata reazione del Presidente, quando i due consiglieri zelanti gli presentano l’agenda della giornata con l’appuntamento messo proprio lì, nell’ora fatidica del riposino, e servirà la forza persuasiva della figlia 20enne per sbloccare la situazione. È un politico scafato con la giacca troppo larga, un tessitore di intrighi al di sotto di ogni sospetto, che nello Studio Ovale beve root beer e sgranocchia m&m’s quando riceve gli ospiti. Poi, come d’incanto, le forze che lo incravattano s’allentano, e il re dei realisti calcolatori si fa a sua volta uomo di spettacolo e avanspettacolo, accodandosi all’imprevedibile danza dell’interlocutore. Il timore, che si insinua durante il film che mette in scena l’incontro, non è che il bromance fra Elvis Presley e Richard Nixon si tramuti in farsa. Il timore è che queste icone americane finiscano per unirsi, come reagenti di un composto chimico, e dai fumi della conseguente esplosione emerga un Trump con il ciuffo paglierino, che promette di costruire muri e spegnere Internet, mentre in sottofondo parte “I can’t help falling in love with you”. Il film della regista Liza Johnson proietta sullo schermo in forma paradossale e sardonica un incontro che, sulla carta, richiederebbe la sospensione di incredulità per essere digerito. Ma con un occhio sulla semi-fiction ambientata nel 1970 e l’altro sulla cronaca della campagna elettorale di oggi, vedere Elvis che mostra qualche mossa di karate a Nixon nello Studio Ovale non fa poi tanto effetto. Dopo il candidato che sfotte la giornalista perché ha le mestruazioni, i dibattiti in cui si fa a gara, fuor di metafora, a chi ce l’ha più lungo, le minacce di chiudere le frontiere per i musulmani, i dazi sui prodotti cinesi, l’umiliazione via Twitter delle mogli degli avversari, le citazioni di Mussolini, le invettive contro il Papa, gli inviti alla violenza ai comizi, le urla, gli insulti e tutto il resto, ecco, dopo tutto questo vedere il re del rock&roll che chiede al Presidente meno rock del recente passato di diventare un agente federale sotto copertura per combattere la diffusione della droga non appare peregrino. Si arriva in sala già vaccinati dalla realtà.

Basta guardare un comizio elettorale a caso per relativizzare l’assurdità cinematografica

THE KING SOTTO COPERTURA
Il Nixon di Spacey non è ancora un oscuro antieroe, ma soltanto il suo antecedente disagiato. Quando incontra Elvis, nel 1970, è un Presidente che ha vinto le elezioni due anni prima in modo convincente e le stravincerà a valanga due anni dopo, non ha ancora iniziato l’inquietante progetto di registrazione delle conversazioni nello Studio Ovale, non è il cattivo antologizzato dalla Storia: Spacey si è preparato al ruolo ascoltando qualunque registrazione e vedendo qualunque filmato gli capitasse a tiro, oppure soltanto «guardando foto di Nixon che sta seduto a disagio». Elvis è Michael Shannon, che ha il merito inestimabile di non mettere in scena l’ennesima caricatura del personaggio più imitato nel sistema solare. Nella sua interpretazione appare un Elvis a due dimensioni, che lascia intravedere un lato malinconico e perfino tragico, con effetti paradossali: mentre Nixon nel corso del film si umanizza, sta al gioco, sembra perfino divertirsi, il re del rock si fa umbratile, legnoso, nixoniano. Fosse qui oggi forse metterebbe in dubbio la validità del certificato di nascita di Barack Obama. «Non sapevo che fosse così tanto conservatore», dice Shannon e, in effetti, a parte l’armamentario culturale del Sud che vive nel mito imperituro di Graceland, nell’immaginario popolare la prima cosa che viene in mente quando si cita Elvis non sono le convention del partito repubblicano, il senatore McCarthy o la “war on drugs”. Elvis non è che un intrattenitore, lo sa bene pure lui, ma giura per iscritto di avere fatto “uno studio approfondito degli abusi di droga e delle tecniche con cui i comunisti fanno il lavaggio del cervello” ed è convinto che potrebbe fare un gran bene al Paese se soltanto avesse un distintivo federale. La condizione è agire sotto copertura. Non può certo lasciare il palco e mettersi un impermeabile da agente dell’FBI. Deve sfruttare la sua capacità di penetrazione nella cultura popolare: le Pantere Nere si fidano di lui, gli hippie lo amano, gli attivisti radicali non lo considerano parte dell’establishment. Del resto, ricorda in una lettera a Nixon che i filologi dovrebbero paragonare ai comunicati stampa di Trump, è stato nominato fra i dieci giovani uomini più notevoli dell’anno che verrà. In un post scriptum si premura di notare che “forse anche lei, Sir, è stato nominato fra i dieci uomini più notevoli”. Lui è pure un maestro dei travestimenti, giura nel film, anche se tutti sanno che Elvis potrebbe travestirsi al massimo da imitatore di Elvis. Un pasticciato teatro dell’assurdo? Il colpo d’occhio di oggi suggerisce che è tutto perfettamente verosimile, anche se sceneggiatori e regista collocano giustamente il racconto nel registro comico. Si tratta piuttosto di capolavori di umorismo involontario, che trasecolano nel grottesco se messi a paragone con un oggi in cui la scioccante distopia politica si trova sulla CNN, non al multisala.

Colin Hanks è Egil Krogh e Michael Shannon è Elvis Presley in Elvis & Nixon

 

TEATRANTI DELLA POLITICA
L’incontro fra Elvis e Nixon è realmente accaduto. Il 21 dicembre del 1970 “The King” si presenta alla Casa Bianca insieme ai fidati Jerry Schilling e Sonny West (interpretati da Alex Pettyfer e Johnny Knoxville) per richiedere di persona un incontro con Nixon. Alle guardie lascia una lettera che ha scritto durante il suo primo volo commerciale dopo tanti anni, per non farsi scoprire, scelta che fornisce una prima testimonianza delle sue abilità come agente sotto copertura. Poi si ritira in una suite del Washington Hotel prenotata sotto il falso nome di Joe Burrows, ad aspettare una chiamata della Casa Bianca che arriva dopo varie vicissitudini sistemate alla bell’e meglio dai suoi. Di quell’incontro rimangono alcune foto che Elvis ha accettato di fare dopo lunghe insistenze – del resto era in una missione segretissima – e che nelle richieste di riproduzioni presso gli archivi nazionali superano tuttora qualunque altro documento. La gente richiede con patria verecondia copie della dichiarazione d’indipendenza o il bel volto di John Fitzgerald Kennedy che, con i capelli mossi dal vento della libertà, pronuncia il discorso della New Frontier, ma prima di tutto gli americani vogliono Elvis e Nixon che si stringono la mano alla Casa Bianca. Non c’è documento più richiesto. Poi ci si domanda da dove venga la fascinazione per l’assurdo e il trash che domina il presente. Elvis & Nixon non è un docudrama, è una ricostruzione fittizia eppure verosimile di quello che potrebbe essere successo fra i due in quei 5 minuti che il Presidente ha concesso e che poi sono dilatati in chissà quanto tempo. Si ride molto, in sala, per le battute fulminanti e soprattuto per l’inversione dei ruoli: il gigante del palco s’atteggia a testimonial armato della Red Scare, il Presidente del Vietnam e delle intercettazioni ossessive è un simpatico spallone divertito da questo fenomeno popolare che gli è piombato in casa. Quando paragonano i metri quadrati di Graceland a quelli della Casa Bianca si arriva a un passo dal salto dello squalo, ma anche in quell’occasione la realtà viene in soccorso. Basta guardare un comizio elettorale a caso per relativizzare l’assurdità della scena cinematografica. Una delle cose che si sa, a livello storico, è che lo scettico Nixon rimane profondamente impressionato da Elvis, che era «quite a guy», un tipo «timido che nascondeva la sua timidezza dietro a un comportamento sgargiante». Sono cose che ha detto il consigliere nixoniano Roger Stone, un mirabolante teorico del complotto, convinto che il mandante dell’assassinio di Kennedy fosse Lyndon Johnson, un uomo di mondo che si esercita apertamente nell’arte del ricatto, e ama definirsi un «sicario del partito repubblicano», un perfetto teatrante della politica che si veste non proprio come Elvis, ma la strada è quella, e sulla schiena s’è fatto tatuare il volto di Nixon. Stone ha detto che «la politica con me non è teatro. È una performance artistica, talvolta senza alcuno scopo». Oggi è il principale consigliere strategico di Trump.

Iscriviti