Enrico Lo Verso è uno di quegli attori che hai l’impressione di conoscere da sempre. Di quelli il cui talento e i cui lineamenti, cambiati innumerevoli volte in questi decenni sugli schermi e non solo, ti danno da sempre una sensazione di prossimità.
Da Il ladro di bambini a Michelangelo Infinito, produzione originale Sky, coprodotto da Magnitudo film e distribuito al cinema dal 27 settembre al 3 ottobre da Lucky Red. Un biopic visionario, con effetti speciali da sindrome di Stendhal e la regia di Emanuele Imbucci a tenere insieme la straordinaria interpretazione del protagonista (bravissimo anche Ivano Marescotti nella parte del Vasari) e il grande investimento creativo e produttivo. Il film lo abbiamo seguito dal set – ci siamo arrampicati fino a Carrara, in una cava in cui il marmo e le motoseghe con lame di diamanti da 25000 watt smagnetizzavano gli smartphone – fino all’uscita in sala. Sky ha deciso di fare un salto di qualità rispetto ai cineviaggi artistici precedenti: rispetto a Raffaello, non c’è distacco tra opere e racconto, si è dentro i capolavori e l’artista. Enrico lo abbiamo incontrato a Carrara e poi di nuovo negli studi di Radio Rock 106.6.
Ne è passata di acqua sotto i ponti dal nostro primo incontro, ai tempi de Il ladro di bambini…
Ricordo ancora il provino di quel film. Ero pieno di rabbia perché chiedevano verità, volevano dei veri meridionali per fare i carabinieri, essendo una delle prime opere tutta in presa diretta. Poi scopro che vogliono Banderas come protagonista e mi chiedo “perché?”. Mi monta l’incazzatura e così lì, al provino, mi danno il ciak e guardo fisso la macchina da presa. Muto. Il direttore del casting mi dice “beh?”. E io, feroce “ho già cominciato”. Quando Amelio, che ora per me è Gianni, lo vide rimase colpito da quella faccia tosta. Poi venne a teatro, a vedere Volevamo essere gli U2. E mi prese. Erano tempi in cui i cineasti non erano pigri. Ero felicissimo, avevo amato tantissimo il suo Porte Aperte, anche se per me Colpire al cuore è tuttora il suo capolavoro.
Volevamo essere gli U2. Dal 3 ottobre quel gruppo torna a teatro. Lo stesso.
In scena c’è un gruppo che vuole ricordare un amico che non c’è più. Sono cresciuti tutti, siamo cresciuti tutti: stessi attori, autori e teatro, l’Argot. E al titolo si aggiunge solo “forse era meglio Vasco”. Di cui suoneremo e canteremo Sally. E poi Where the street have no name degli U2 e Wish you were here dei Pink Floyd. Uno spettacolo molto rock, 30 anni dopo.
Quello spettacolo ebbe 5 anni di repliche e portò a un film cult. Poi ai tempi dei social sono stati creati gruppi in vostro onore, alcuni hanno scritto album ispirati a voi, ora fanno la fila per rivedervi. Eppure tu, tra un kolossal internazionale e uno spettacolo così atteso, non fai mai il divo.
Il nostro è un lavoro così privilegiato da non poter, anzi dover essere rovinato con atteggiamenti divistici. Io, nei teatri in cui recito, mi diverto a accogliere il pubblico, a scherzare dicendo che ci sarà un altro al posto mio sul palco, uno spettacolo nello spettacolo. Ma quando tutto comincia ognuno di noi mette la maschera che serve. Loro quella del pubblico, io quella dell’attore.
Questa umiltà, questo essere alla mano lo hai pagato nella tua carriera?
L’antidivismo l’ho pagato tanto, forse troppo. Mi hanno sempre detto di tirarmela di più, ma la mia mamma mi ha fatto così. E non riesco a essere altro.
Per fortuna c’è Sky che per un prodotto di punta sceglie uno bravo e non quello con più follower.
Non mi far parlare. Io credo che sia drammatico che questo sia eccezionale, anche se lo è. E’ obbligatorio puntare sula qualità, è immorale scegliere un cattivo attore per convenienza di share. Anche perché il pubblico se gli dai la qualità, la premia. Sky lo ha capito prima di altri.
Come si indossa un personaggio difficile come Michelangelo Buonarroti?
Partendo dal dire di no. Dalla consapevolezza che ero inadeguato al compito, dal rifiuto di farlo. Ma quando capisci che è un’impresa impossibile per chiunque ti dici: allora mi ci diverto io. Ti confronti con qualcosa di enorme e infinito. Devi indagare senza paura né filtri quel carattere piene di luce nel lavoro e di ombre nell’intimo. Lo spettatore deve aspettarsi una sola cosa: la meraviglia, il meravigliarsi. Buonarroti era pietra e modellava la pietra, comunicava solo con le sue opere. Sono diverse da quelle degli altri perché non sono esteriori e basta, hanno un’anima, la sua. Lui produceva, creava e parlava attraverso la pietra perché altrimenti non sapeva comunicare. Non lo ha capito nessuno, neanche chi ha lavorato con lui. Era così importante quel materiale e il suo lavoro che non ho mai visto prima la location in cui ho recitato, per rivivere lo stupore reale di Buonarroti quando se la trovò davanti.
Ricordo il set. Recitavi il monologo sulla Pietà. Eri concentratissimo, così tanto che non ebbi il coraggio di intervistarti. Anzi, neanche di salutarti. Avevo l’impressione che avrei distrutto qualcosa di prezioso e fragile.
Hai fatto bene. Quando lavoro vado in trance. Non mi accorgo nulla. Inoltre ci sono momenti che sono sospensioni magiche, dentro quelle cave io sono entrato in un limbo. Lì ho fatto la mia Sistina: non perché sia stato bravo, questo dovrete dirlo voi, ma per il grado di difficoltà dell’impresa. Io, poi, a differenza di Michelangelo, potevo solo immaginarla la pietra, le opere, le visioni. Lui le aveva, io sapevo che sarebbero arrivati dopo, con gli effetti speciali. La mia fortuna è stata avere una squadra pazzesca che ha giocato per me e con me. E ora ci troviamo di fronte a un’opera che vorrebbero in 60 paesi. Senza ancora averlo visto. Figurati dopo.
Lo rifaresti?
Certo, subito. Ma Michelangelo è stato il ruolo più difficile della mia carriera: ogni sera mi stupivo di avercela fatta, ogni mattina mi chiedevo se ce l’avrei fatta. Ci sono riuscito solo perché ho deciso di vivere alla giornata, senza farmi schiacciare da ciò che rimaneva da fare. Continuando, anche lì, a vivere spensieratamente questo gioco bellissimo. Non riuscirei a lavorare in altro modo, è l’unica maniera in cui posso fare, ad esempio, Uno, nessuno e centomila. Interpreto venti personaggi, alcuni li faccio contemporaneamente, con il viso sono uno e con le mani un altro. E lì mi entusiasmo, sento tutta la follia di ciò che sto facendo. E non c’è nulla di più bello.
Ora Michelangelo andrà in tutto il mondo. Ti spaventa? Già in passato la fama è arrivata ma non ti ha cambiato.
Non sono mai stato orientato dalla gratificazione che dà il successo. Non mi emoziona il tappeto di rosso di Cannes, ma prendere bene una battuta. Non amo i complimenti: anzi, quando me li fanno non ci credo mai. Sono corazzato: per me, semplicemente, non è importante.
Girare con te è tutto una stretta di mano, foto, frasi affettuose. Perché gli spettatori ti amano tanto?
Forse perché amo essere spettatore. Confesso un segreto: ho la dote di entrare in concentrazione molto facilmente, grazie al cinema che mi ha insegnato a staccare e attaccare in pochi secondi. E confesso che quando siamo in tanti in scena e magari passa qualche minuto senza che io debba stare sul palco, esco dalle quinte, dal teatro, rientro e mi metto in platea. Per godermi lo spettacolo. Sono quelle follie che per me sono necessarie: divertirsi è fondamentale, perché questo mestiere è pieno di porte in faccia, calci in culo, delusioni e quindi quando riesci a farlo non puoi rovinarlo con la paura del palcoscenico o l’ansia da prestazione, che peraltro non ho mai avuto: tanto basta dare la colpa al regista se viene male! Scherzi a parte, questo lavoro devi farlo con gioia.
A proposito di regia, ci hai mai pensato?
Ci ho pensato tante volte a fare il regista, sì. Qualcosa bolle in pentola. La cosa mi ha sempre stuzzicato: sono rimasto quel bambino superficiale che a 8 anni di fronte a uno spettacolo disse “voglio fare questo”. Allora vedevo solo gli attori, ora mi rendo conto che tutto il lavoro è dietro. Michelangelo è fatto di tutti coloro che ci hanno lavorato, io sono solo la faccia, il corpo. Ma non avete idea di che cosa sono stati capaci tutti gli altri. E quindi ora che lo so, voglio provarci.
Cosa ami più del tuo lavoro?
Il momento più bello sono le prove. Come per il fotoreporter il momento più bello è scattare in uno scenario di guerra. Lo spettacolo è come la mostra per lui: il momento in cui anche gli altri possono capire quanto sia bello ciò che fa.
Il tuo motto?
Il vero saggio è l’incosciente.
Cosa speri per il futuro?
Voglio solo continuare a divertirmi.