Siamo arrivati a Venezia e anche se sembrano mancare sponsor e latitano le strutture avveniristiche in cui sponsor di bevande, spesso alcoliche (se vi chiedete il perché di recensioni incomprensibili dai festival, ora sapete), rifocillano giornalisti e si fanno pubblicità, non è mancato comunque l’adeguato comitato d’accoglienza. E non parliamo di Josh Brolin e Jake Gyllenhall, ma del caldo umido e delle immancabili zanzare, così grandi e golose che dovrebbero essere costrette a far l’accredito – costosissimo, 60 euro – anche loro.
Tutto questo però non ci ha impedito di goderci Everest 3D, il film inaugurale fuori concorso. Ma prima della recensione è giusto leggere attentamente la seguente avvertenza: se Jon Krakauer volesse fare una gita con voi, scrivere la vostra biografia o anche solo invitarvi per un aperitivo, voi declinate cortesemente. Non sottovalutate questo suggerimento: è questione di vita o di morte. Il buon Jon, infatti, è uno straordinario giornalista e sa raccontare epiche tragedie con una penna straordinaria, ma se decide di camminarvi accanto, dall’altro lato vi terrà a braccetto la grande mietitrice. Fu lui a raccontarci Christopher McCandless in Into the Wild, poi divenuto l’omonimo film di Sean Penn con un grande Emile Hirsch (che fa una pessima fine), è lui in Aria Sottile (edito da Corbucci in Italia) a raccontarci la storia della spedizione himalayana più sfortunata dell’ultimo quarto di secolo, raccontata in Everest, appunto. E se di Chris lesse i diari e raccontò la storia, di questo viaggio di conquista e di morte è stato addirittura tra i protagonisti e superstiti (nel film è interpretato da Micheal Kelly).
È giusto dire subito che rispetto alla complessità e alla potenza del libro, l’opera del regista islandese già autore di 101 Reykyavìk – il suo folgorante esordio – e Two Guns, action fracassone americano con Mark Wahlberg e Denzel Washington, è un sunto tanto spettacolare quanto semplificato. Non sentirete addosso l’ossessione degli alpinisti, professionisti e dilettanti, né verrete stupiti dalla logica surreale che la mancanza di ossigeno regala agli scalatori. I ritmi e la struttura sono quelli del drammone hollywodiano, sia pur nella non abituale ambientazione di una montagna mitica e implacabile come quella domata per la prima volta da George Everest. Non sa decidersi, Kormàkur, tra i toni intimisti del dramma solitario di una collettività spezzata dalla ferocia della natura, e quelli spettacolari di un 3D al servizio di un panorama terribilmente meraviglioso (e viceversa). E quando sceglie, forse sbaglia nell’assecondare questi ultimi, sottolineandoli con una colonna sonora prevedibile e invadente.
Ciò non toglie che questo kolossal – 65 milioni di dollari di budget – riesca a conquistarti, pur nella sua discontinuità. Bella è la scelta del regista di scombinare le carte tra divi e apparenti comprimari, non avendo pietà così come fa l’alta montagna che sa mettere ko quel Jake Gyllenhall che era rimasto in piedi dopo i pugni di Southpaw, di “banalizzare” il machismo di Josh Brolin, di relegare a un impotente emarginazione una difficilmente riconoscibile Keira Knightley. I rari momenti di fragilità e poesia – un paio o poco più – spezzano i ritmi compassati e non di rado scontati del suo lungometraggio, infine la macchina da presa arriva a domare ciò che la scrittura non riesce forse neanche a comprendere.
Ed è anche giusto così, probabilmente. Come si può capire cosa succede oltre gli ottomila metri, quando sei solo contro tutto, quando l’aria rarefa pensieri e movimenti? Non si può, come non è possibile capire decisioni, emozioni, follie che oltrepassano la razionalità. Chi ha visto quelle vette, non può essere normale. Ed è per questo che dispiace che Kormàkur alla cima della sua arte non ci arrivi: serviva un capolavoro, è arrivato “solo” un buon film, che nelle sale italiane uscirà il 24 settembre.