Francesco Montanari è uno che pesa le parole. Lo capisci perché, prima di rispondere a ogni domanda, le cerca con cura. E le trova. Dai tempi di Romanzo Criminale – la serie, quando la gente per strada gli urlava “Libbbano!”, ormai sono passati dieci anni. E nel frattempo sono arrivati tanti ruoli: in tv (Squadra Antimafia, Questo è il mio paese), a teatro (ha appena finito la tournée di Uno Zio Vanja, per la regia di Vinicio Marchioni), e al cinema, quello più recente in Sole cuore amore di Daniele Vicari. Adesso Francesco è tornato sul piccolo schermo con una serie tv su Rai 2. E attenzione, non abbiamo scritto fiction, ma serie.
Il cacciatore è liberamente ispirata a un libro, Il cacciatore di mafiosi, e il personaggio di Montanari, Saverio Barone, è liberamente ispirato al suo autore, il magistrato Alfonso Sabella e alla storia del suo ingresso nell’antimafia, dove arrestò Bagarella e oltre 1700 latitanti. Il cacciatore è un prodotto ambizioso, teso, sempre in chiaroscuro, proprio come un crime-drama d’oltreoceano. D’altra parte i risultati sono già arrivati con il debutto: «L’aspettativa del canale era fare l’8%, siamo arrivati al 10,3%, circa l’11% considerando anche Rai Play. In pratica 2 milioni 500 mila persone hanno visto i primi due episodi».
Avevi un po’ di ansia da prestazione?
Durante la realizzazione, ti rendi conto quando un prodotto è scritto, girato e interpretato benissimo da tutti i colleghi. Poi sai, il successo è un animale talmente strano che… vai a capire. Il fatto che sia andata così bene è molto importante per la RAI, perché dimostra che, anche sulla tv generalista, si possono fare cose molto cool.
C’è chi ha parlato de Il Cacciatore come dell’anti Gomorra, che ne pensi?
Se ti riferisci ai fatti di cronaca reali, credo che sia l’anti Camorra, più che l’anti Gomorra. Parlando di serialità invece penso che faccia parte di un percorso italiano di ricerca della competizione internazionale, tanto che Il Cacciatore è stata presa in concorso alla prima edizione del festival delle serie a Cannes, dove rappresentiamo l’Italia.
Rispetto alla tradizione delle fiction, Il Cacciatore si configura in tutto e per tutto come una serie tv.
La fiction lavora sugli stereotipi: il buono è buono a 360 gradi, senza ombre, e il cattivo è cattivo, senza punti luce. Invece la serialità racconta, come il grande cinema, l’umanità con tutte le sue contraddizioni. E lo fa stabilendo comunque dei ruoli sociali: i cattivi, e cioè i mafiosi, e i buoni, il pool antimafia. Questa serie è la dimostrazione che il bene può essere cool, il nostro obiettivo è che, dopo aver visto tutte le puntate, uno pensi: “Cazzo, fare il magistrato antimafia è figo”. In fondo, io sono stato il pioniere delle serie in cui si elargiva solidarietà al male se vogliamo, no?
Matteo Messina Denaro che dice a Leoluca Bagarella: “Ci compriamo lo stato”, fa venire i brividi. E siamo nel 2018.
Eh lo so, lo so però sai, quelle sono dinamiche che sono accadute e che purtroppo accadono. Per fortuna che ci sono altre umanità che le combattono.
Quanto sei dimagrito per questo ruolo?
Otto chili, infatti adesso per la seconda serie sono un po’ preoccupato perché devo rimettermi a dieta.
Spesso ti hanno affidato parti che hanno a che fare con la mafia, perché secondo te?
Il cinema è immagine, ci sta che tu abbia un physique du rôle che può veicolare determinate emotività. Evidentemente ho una faccia e un corpo che si addicono bene a ruoli duri. In questo caso però sono particolarmente felice perché il ruolo duro non è connotato soltanto nell’aspetto dell’antagonista, ma può essere anche protagonista in una maniera positiva.
Però Saverio Barone è un po’ paraculo, o no?
Saverio è un grandissimo paraculo, è una sorta di Rugantino, per dirlo alla romana: è uno che cerca di usare tutto quello che accade per il suo tornaconto. E il suo tornaconto è la realizzazione personale.
Eroe e antieroe nello stesso tempo, insomma. Ma tu un eroe nella vita ce l’hai?
No, non ce l’ho, se non mia moglie (Andrea Delogu, nda) che è un’eroina: lei mi insegna davvero a essere costruttivo, ad ascoltarmi, a non avere paura delle insicurezze che derivano dalla vita. Mi ha migliorato l’esistenza: è una donna molto coraggiosa, forte, attentissima a ciò che le accade intorno.
Su Twitter Andrea ha pubblicato un fotogramma de Il Cacciatore dove sei nudo a letto con Miriam Dalmazio (che interpreta la compagna di Barone nella serie) e ha commentato: “Sto bene. Tranquille amiche. Sto bene. Una piccola fitta al petto ma sto bene”. Tutto ok?
(Ride) Sì sì! Scherza, figurati, ci mancherebbe. Il nostro rapporto è fatto di grande fiducia. Fa parte del mio lavoro: interpreto esseri umani che hanno anche delle relazioni, bisogna metterlo in conto, ci vuole tanta pazienza.
Sto bene. Tranquille amiche. Sto bene. Una piccola fitta al petto ma sto bene. #ilcacciatore pic.twitter.com/7BpEXsCSsi
— Andrea Delogu (@andreadelogu) March 15, 2018
Ho letto che Andrea ti ha cantato T’appartengo di Ambra al primo appuntamento.
No, me l’ha cantata al matrimonio, proprio durante la cerimonia. Io ho fatto una promessa molto sentita, profonda, scritta da me. E tutti giù a piangere. Lei poi ha tirato su il morale della situazione, e paradossalmente è stata molto più commovente delle mie parole.
Qual è rimpianto più grosso della tua carriera?
Non ho un rimpianto specifico, ma in passato sono stato un po’ pigro e lo prendo a esempio per non esserlo più.
Il ruolo in cui ti sei sentito al meglio, quello che, quando ti rivedi, pensi: “Ok, ho fatto veramente il lavoro migliore della mia vita”?
Ancora deve arrivare, secondo me.
Un’altra cosa fighissima de Il Cacciatore è la colonna sonora. Cosa ascolti quando ti prepari a girare le scene?
Leggo molto la sceneggiatura, ma non ascolto musica, credo che sia un ostacolo verso la mia creatività. So che sono una mosca bianca, perché il 90% degli attori fa così. La sento in altre situazioni, per godermela: sono un grandissimo appassionato di metal. Il gruppo della mia vita sono i Metallica: a parte Sant’Agostino, vorrei girare la biografia filmata di James Hetfield. Mi sono ispirato a lui, alla sua postura durante i concerti, per fare il Libanese.
La cosa che ti scoccia di più quando ti fanno le interviste.
Quando non prendono in considerazione il fatto che tra il Libanese e Saverio Barone siano passati 10 anni e tantissima acqua sotto i ponti. Mi urta un po’ l’incuria di chi mi intervista nel considerare il fatto che esistano solo questi due ruoli, perché in realtà ne ho interpretati tanti. Parto dal presupposto che, se fai il giornalista, devi sapere vita, morte e miracoli dell’intervistato. Essere consapevole e competente è il tuo lavoro, altrimenti è inutile. E, ovviamente, non sto parlando di te.