Se gli chiedi in cosa crede, Giuseppe Battiston ti risponde con ironia e intelligenza: «Nella grigliata di Pasquetta». E, a considerare dalla reazione quando gli domandi qual è la sua canzone del cuore – «Una qualsiasi di Springsteen» -, pure in Bruce. E aggiunge: «Buona primavera, Boss!».
Questa, a dirla tutta, è stata la fine della nostra chiacchierata telefonica. Che, a proposito di fede e credenze, è partita parlando di Io c’è, la commedia (sagace e divertentissima) di Alessandro Aronadio con cui in questi giorni Battiston è al cinema. L’attore udinese interpreta l’ideologo dello Ionismo, il cui primo comandamento è “Non avrai altro dio all’infuori di TE”: «È una religione che pone l’individuo al centro dell’universo. Di per sé non è malvagio credere in se stessi, ma porsi al centro del mondo mi sembra un’idea quantomeno bizzarra: l’ha avuta qualche politico forse nel nostro passato. Ma non è andata benissimo…».
Come nasce questa religione nuova di pacca? Semplice. Massimo (Edoardo Leo) e Adriana (Margherita Buy) possiedono un bed & breakfast che va male. Di fronte c’è un convento di suore pieno di fedeli, pellegrini, migranti, che se la cava benissimo grazie alle donazioni. Massimo prende ispirazione e decide di fondare un nuovo credo: «Per creare un culto religioso basta andare in comune e compilare un modulo. Giuro, è vero. Lo si può verificare andando a molestare qualche impiegato in municipio».
A far quadrare i conti ci pensa la sorella commercialista ma «c’è bisogno della figura di un teologo che plasmi questo pensiero farlocco e lo faccia diventare praticabile e praticante: la scelta ricade su Marco, uno scrittore di alterne fortune che ha scritto un’opera piuttosto corposa con il desiderio e l’obiettivo che nessuno la legga».
Insomma, una religione creata con uno scopo ben preciso: quello di non pagare le tasse. «Grazie al cielo credo nel potere dei film come opere di fantasia. Alessandro Aronadio ha girato questa pellicola con grazia e sensibilità, perché il rischio di venire equivocati era presentissimo. In Italia è difficile parlare di religione ma Io c’è mi sembra un modo intelligente per sorridere di alcuni aspetti che riguardano più le nostre miserie morali, che quelle materiali… Detto ciò, la fede salva l’uomo, ma il cittadino deve salvarlo qualcun altro».
Battiston è anche tra i protagonisti di Trust, la serie tv del premio Oscar Danny Boyle sul rapimento Getty, dove interpreta Bertolini, un oste romano che procaccia cocaina a Paul prima che venga rapito e con cui il ragazzo si indebita pesantemente: «Danny, anzi, il signor Boyle (ride), ha un’energia che non ho mai visto, trasmette la passione autentica per questo mestiere. E ha la capacità di fotografare la realtà e di raccontarla con un’ironia caustica a volte, con situazioni che passano dalla comicità alla drammaticità nello spazio di un respiro. E questa è la dote di un genio. Se a quello unisci il talento nella scrittura di Simon Beaufoy, la miscela è straordinariamente potente».
Quanto ti sta sulle palle quando, nonostante la tua grande carriera tra teatro e cinema, ti indicano “solo” come quello di Perfetti Sconosciuti? «Mi fa sorridere quando mi riconoscono per Smetto quando voglio (ride). Non mi disturba affatto, la gente fa questo: ti identifica con il personaggio che interpreti, è una forma un po’ naïf di leggere il lavoro di noi attori. C’è anche chi invece guarda più attentamente il tuo percorso e fa piacere quando qualcuno apprezza le tue scelte, più del fatto di essere riconosciuti per Perfetti Sconosciuti o Smetto quando voglio. Una volta mi riconoscevano anche per Romanzo Criminale di Placido. Siamo come i cinesi, tutti uguali: basta che uno sia sovrappeso… in realtà poi la gente smette di guardare, e vede soltanto una forma rotonda. Pazienza, se non altro mi fa piacere essere scambiato con Stefano Fresi, che è una persona che stimo davvero».
Che spazio hanno i caratteristi in Italia? «In Italia il caratterista ha una connotazione in qualche modo di secondo piano, che un pochino offende il lavoro che facciamo. In realtà credo che le pellicole dove ci sono dei non protagonisti di livello diventino dei grandi film, perché quel tipo di lavoro non fa altro che far risaltare quello del protagonista. Ma è una cosa quasi tecnica, che chi conosce ciò che facciamo può apprezzare a pieno. Lo spettatore ricava spesso immagini di grande simpatia ed empatia da questa tipologia di attori e di personaggi. Ma la gloria è minore. Ecco, mettiamola così».