«Il nostro primo dovere quando ci svegliamo la mattina è credere nell’amore». Guillermo Del Toro arriva a Venezia e la travolge. «Penso che il fantasy sia un genere molto politico ma l’atto più politico che possiamo compiere oggi è scegliere l’amore al posto della paura». Il suo The Shape of Water unisce immaginazione e realtà storica (un fil rouge per lui da La spina del diavolo a Il labirinto del fauno): è una favola ambientata a Baltimora nel 1962, in cui una donna muta che si è costruita attorno un piccolo mondo su misura si innamora di una creatura acquatica.
E attenzione, il sentimento di cui parliamo è tutt’altro che platonico: «Lei è una donna reale, che si masturba e si prepara la colazione con lo stesso agio. Volevo che il sesso nel film fosse presente nel modo più naturale, bello e non sfruttato possibile, ma… lo fanno. Ed è stato complicato girare quella scena, ci sono volute sei ore solo per trovare le luci giuste». «Ho risposto alla domanda?» chiede il regista messicano «Sono arrugginito, ho appena iniziato».
Del Toro (ma se lo incontrate potreste anche scambiarlo per Michael Moore) è un vulcano, la conferenza scorre via tra una battuta, «Perché la creatura non ha un nome? In realtà sul set lo chiamavamo Charlie», e una citazione colta: «Il film è come Teorema di Pasolini con un pesce (ride)».
Come sempre il cineasta ha scritto una biografia per ognuno dei suoi personaggi, tranne che per il “mostro” ed Elisa Esposito, la protagonista, interpretata da un strepitosa Sally Hawkins: «Quando l’ho contattata lei stava lavorando a una storia simile a quella che avevo in mente, incredibile» e l’attrice replica «Guillermo mi ha chiamata e mi è quasi caduto il telefono dalle mani: è stata un coincidenza davvero strana, magica». E poi i due si sono incontrati al party dei Golden Globe nel 2014: «Io ero ubriaco e raccontare l’idea di questo film non ti fa sembrare meno brillo: biascicavo “Allora, c’è un uomo pesce…”». Sally Hawkins ride: «Ma io ti avevo capito, non si sentiva nulla a quella festa ma mi hai preso tra le braccia… e quando Guillermo lo fa non ti lascia più andare». Insomma l’avete capito: “love is in the air”, professionalmente parlando ovvio.
«C’è una fiaba cha amavo da bambino: Il pesciolino magico. E ho pensato di fare una variazione sul tema» racconta Del Toro «Per me è tutto immagini ed emozioni, più che parole: scherzo affermando che è il mio film più francese perché è innamorato dell’amore e del cinema.
L’unica strada è credere nell’amore. È difficile parlare di emozioni in questi tempi cinici, ma i Beatles e Gesù non possono essersi sbagliati».
Il periodo scelto, quello della Guerra Fredda, solleva nella storia USA problematiche molto contemporanee: «La pellicola è ambientata nel 1962 ma affronta temi attualissimi. Slogan come “Facciamo di nuovo grande l’America” si riferiscono a quell’America lì, piena di promesse e di fiducia nel futuro, ma profondamente sessista, classista e razzista come quella di oggi. Quando Kennedy viene assassinato gli Stati Uniti perdono, insieme al sogno di Camelot, l’innocenza. Sono messicano e quindi so cosa vuol dire essere visto come l’altro: questa creatura può essere divina o bestiale a seconda degli occhi di chi la guarda».
Come avete costruito scene così in bilico tra il romanticismo e le atmosfere più oscure? Questa volta la domanda è per Alexander Desplat, il compositore premio Oscar per The Grand Budapest Hotel, che ha curato la colonna sonora: «Sono francese, tutto qui (ride). L’emozione è cruciale per il racconto di Guillermo quindi abbiamo solo cercato la giusta dinamica, senza forzare la mano. Volevamo che la musica scorresse come l’acqua, dentro e fuori dal film. Ci sono delle reference francesi e italiane: Nino Rota e George Delerue». Il racconto di Del Toro è più goliardico:«Ho dovuto fare il sacrificio di andare a Parigi più volte, anche oltre il necessario. Ma ho pagato io per i viaggi (ride) e abbiamo preso decisioni tra la cena in un bel ristorante e il pranzo in un altro».
Ma a che punto è il suo progetto su Pinocchio? «Cerco finanziamenti da 10 anni: abbiamo il burattino, abbiamo il design ma mi complico sempre la vita» afferma il regista «Quando ho detto che volevo lavorare su Pinocchio gli studios mi hanno chiamato entusiasti, ma appena ho spiegato che era un Pinocchio antifascista hanno replicato “oook”. Mi incasino da solo, ma se avete 35 milioni di dollari e volete rendere un messicano felice, questa è la vostra occasione».