«È un film nato da diverse congiunture e suggestioni inevitabilmente legate al triste e
sconvolgente periodo che tutti insieme stiamo afrontando con immense difcoltà. È una storia densa di rabbia, dolore, tenerezza, fragilità, furore, ironia, cinismo e violenza. Una violenza a volte nascosta, velata, a volte evidente, cristallina, subdola e premeditata». Così Bonifacio Angius racconta I giganti, unico titolo italiano in concorso alla prossima edizione del Festival di Locarno (4-14 agosto).
Una rimpatriata tra vecchi amici. Una casa sperduta in una valle dimenticata dal mondo. Tanti ricordi, piombo, e storie d’amore dall’abisso.
«La violenza, nei gesti e nei pensieri, negli sguardi e nelle parole, è motore invisibile delle azioni dei personaggi e, attraverso il ritratto di un piccolo mondo autodistruttivo, forma elementare dell’agire umano», continua il regista, che è anche tra i protagonisti insieme a Stefano Deffenu, Michele Manca, Riccardo Bombagi e Stefano Manca. «L’idea del film nasce dall’urgenza di mettere a nudo le fragilità dei rapporti umani e di mostrarne il disequilibrio, cercando attraverso il mezzo cinematografco di illuminarne i lati più oscuri, nostalgici, sinistri e malinconici».
Luigi Frassetto ha curato la colonna sonora: «Quando ho visto la prima copia-lavoro dei Giganti non potevo credere alla fortuna che mi era capitata: era come se, chiedendomi di scrivere le musiche per questo film, Bonifacio Angius mi avesse affidato il compito di ripercorrere la storia dei dischi a microsolco, facendola rivivere inquei vinili, ereditati da vecchi parenti, che girano sul piatto del giradischi nella casa dove si svolgono le vicende dei nostri personaggi. Tra gli anni ’40 e ’60 del secolo scorso, all’epoca del boom dell’industria discografica, le classifichedi vendita erano quanto mai eterogenee, tra successi pop, incisioni di musica classica, cantautori e temi tratti dalle colonne sonore dei flm del momento. Era un periodo pionieristico e di sperimentazione ma, nonostante questa varietà, si può individuare un suono tipico dell’epoca,anche perché spesso erano gli stessi musicisti a suonare su tutti i generi di dischi. Questo filo sonoro comune aveva la sua colonna portante nell’orchestra d’archi e il caso ha voluto che Bonifacio amasse gli archi tanto quanto me. È proprio il suono di questi strumenti che fa da collante a tutta la colonna musicale dei Giganti e che, assieme ad un pianoforte di stampo felliniano e a poche note di una chitarra in lontananza, ci porta dentro il flm e ci presenta i protagonisti: un intreccio di storie che scorre parallelamente a un fusso musicale quasi ininterrotto; un mondo fatto di melodie nostalgiche ed evocative, e di canzoni. Dovevamo inventare dei dischi – dischi mai esistiti che però sembrassero dei “classici perduti” – così abbiamo percorso a ritroso le strade del bolero, del mambo, del cha-cha-cha, del pop
americano e dei primi cantautori italiani».