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“Il cittadino illustre”: e all’improvviso Bob Dylan non sembra così strano

La straordinaria storia di un Premio Nobel per la Letteratura che dopo quaranta anni torna nella sua città natale

C’è un’opera cinematografica, questa settimana, che in quei corto circuiti che solo questo mondo sa offrirti, si intreccia curiosamente con la realtà. Il cittadino illustre racconta un Nobel per la Letteratura, Daniel Mantovani, immaginario Gabo Marquez argentino che ha eletto nella natia Salas la sua Macondo. E che quel premio lo accetta, ma con riluttanza. “Se metti d’accordo giurati, specialisti e persino monarchi, vuol dire che sei diventato un artista conveniente. E questo è un segno di un inesorabile declino. Sono lusingato, ma sgomento”. Ecco, chissà, forse pure il menestrello Bob Dylan, assurto a totem, ha voluto rifiutare il diventare “una statua”, altra definizione che Mantovani dà di sé, e continuare a essere un artista. E rifiutare l’invito a Stoccolma (ma non l’assegno).

Quei primi 10 minuti in cui il trionfo è crisi e disorientamento, sono un momento di cinema e di profonda riflessione sulla cultura – “non va nominata, mai, non ha bisogno di essere pronunciata, ma di esistere, come la parola libertà” – che vanno oltre il grande schermo.
Il cittadino illustre, però, è più di questo, è il racconto di una coppia di registi interessante, quella formata da Gastòn Duprat e Mariano Cohn, che provano ad affrontare la vita e le sue contraddizioni, le relazioni e le loro reazioni, in un film semplice e malinconico, ironico e disperato nei suoi ritratti di umanità sconfitte quando pur vincenti, senza l’arma troppo facile della demonizzazione del provincialismo. Certo, l’artista plastico di Salas, dove Mantovani torna dopo il Nobel per far la pace dal luogo da cui non ha mai smesso di fuggire, è una figura tragicomica, parossistica. E forse anche l’amico e marito della sua fiamma di gioventù ha tratti esagerati: ma sono maschere, non caricature, una sorta di ballo di gruppo di stereotipi necessari, di caratterizzazioni che, nelle mani di un grande romanziere, diventano tasselli di un affresco. Solo con gli altri, insomma, i colori accesi del singolo diventano sfumature nell’insieme.

Merito di Oscar Martinez, attore straordinario e coppa Volpi a Venezia per questo ruolo, che alle debolezze, ai principi, alle generosità e alla vanità di Mantovani dà una tridimensionalità sfaccettata, delicata ma anche feroce, anzi ferina. Fino a quello sguardo finale in camera, in cui rimane dentro di te il dubbio su tutto. Anche sul fatto che lui non sia marionetta, ma burattinaio, e su qual sia il ruolo dello spettatore nella sua storia.
E in fondo, a leggere e ascoltare Bob Dylan, provate lo stesso.

Il cittadino illustre è uno specchio e un cannocchiale puntato sulla società dello spettacolo quando se ne va e ti lascia solo con le tue paure e le tue insicurezze, è un insieme di aforismi che diventa vita, e il contrario. E’ una groupie (Belen Chavanne), bellissima, che sembra uscita da un Californication argentina, e che mostra come il nostro (anti)eroe certo non possa ritenersi migliore di coloro che vorrebbe ai suoi piedi, in una sorta di rivalsa gentile.
C’è, in quest’opera che per regia e fotografia non cerca chissà quali leziosismi mentre nella scrittura e nel casting mostra una marcia in più, uno sguardo sulla struttura sociale e intellettuale dei (pre)giudizi che è affascinante, in cui l’arroganza che viene dal basso si scontra con il paternalismo intellettuale, dimostrandosi entrambe le facce di una stessa medaglia meschina e rancorosa. Tutti così impegnati a voler prendersi tutta la torta da non capire che ti godresti meglio anche solo la tua fetta.

Salas è il lato oscuro di ognuno di noi, ma lo è anche quel Nobel saccente e seducente. Ed esattamente come per Bob Dylan, a rifletterci, non sai da quale parte è giusto stare. Forse da quella della commedia umana, capace sempre di mettere la parola fine al momento giusto. O forse no.

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