L’ossessione. Ascolti le loro voci, gentili ma decise, come quel talento che mettono nelle parole scritte e recitate, e la senti addosso. Vibrante, emozionante, nobile. Se una cosa unisce Niccolò Ammaniti e Alba Rohrwacher è quel motore inesauribile di chi ama il proprio lavoro, gli è devoto tanto da accettarne le sfide più difficili. Anzi, da cercarle. Ossessivamente.
Sul set del Miracolo, serie che spariglia le carte della narrazione italiana sul piccolo schermo, ne hanno trovate entrambi. A riassumerlo è l’attrice nata a Firenze, fotografando cos’è stato questo lungo, faticoso, entusiasmante viaggio. «Mi sembrava pazzo, spericolato. E io amo le cose spericolate, più di quelle normali e sicure».
Difficile raccontare meglio questo film. Già, film. Perché per Alba Rorhwacher non c’è «nulla di diverso nell’intensità del lavoro, nella profondità della ricerca del personaggio. Qui c’è tutto il bello del cinema: Il miracolo potrebbe andare tranquillamente sul grande schermo». Con questa serie originale, Sky prosegue nel suo storytelling alternativo, con l’ambizione di portare l’ampio respiro del cinema e della serialità a viaggiare insieme. «Sono stato fortunato, perché Sky e Wildside (che ha curato la produzione con Mario Gianani e Lorenzo Mieli, nda) mi hanno sostenuto, senza impormi nulla. Nel cast potevo chiedere grandi star, ma anche giovani promettenti. Ho avuto libertà totale», dice Ammaniti. Dopo Donato Carrisi, fresco vincitore di un David per La ragazza nella nebbia, ecco un nuovo asso della letteratura mostrare un robusto talento dietro la macchina da presa.
Ammaniti, che cura la regia assieme a Francesco Munzi e Lucio Pellegrini, ha dato vita a un racconto che dentro ha thriller politico, fantasy, introspezione, psicodramma. Gli ingredienti cui ci aveva abituato nei suoi libri: un continuo impasto di genere e umanità, la lacerante lucidità della letteratura russa e il ritmo e la visione di quella americana. E il lato oscuro di entrambe.
Il cinema è da sempre una musa per il romanziere che, non a caso, ha trovato chi, fortunatamente o meno, ha portato le sue storie sul grande schermo, dall’esordio Branchie per arrivare a Salvatores. «L’andamento è tipico dei miei romanzi, per esempio Come Dio comanda o Ti prendo e ti porto via, dove c’è un evento scatenante, che ti conduce oltre. I personaggi interagiscono poco tra loro, sono tutti catalizzati da quella madonnina, con le loro ossessioni, le loro paure e le loro colpe. Il miracolo nasce come romanzo e solo dopo diventa una serie, anche perché la letteratura forse il sangue non sa restituirlo. Soprattutto se esce da una statua sacra».
La serie si concentra tutta sul ritrovamento di una madonna lacrimante (9 litri all’ora, per la precisione), un evento che sconquassa la vita di chi ne viene a contatto: dal premier (Guido Caprino), fino a una giovane biologa (Alba Rohrwacher). «Per le sue dimensioni, la scrittura di una serie si avvicina al romanzo. Le 8 puntate potevano davvero far esprimere il suo valore letterario: le dimensioni delle storie sono importanti, ti permettono quelle digressioni che rendono grande un’opera, di costruire una struttura forte e imporre il passo della narrazione ottocentesca, con personaggi vivi di per sé».
Ognuno a suo modo irresistibile: dallo sguardo dolente di Sergio Albelli alla sensualità diversa di Elena Lietti, dalla solita bravissima Lorenza Indovina a un inquietante, feroce Tommaso Ragno. «Non è stata una passeggiata», ammette Rohrwacher. «Non c’erano tanti parametri di paragone, indagavamo ogni giorno territori nuovi, impervi, non sapevamo come e dove spingerci. Ho visto poche cose, nella mia vita, così coraggiose ed estreme. Sandra, il mio personaggio, mi piace per la sua imprevedibilità. Sapevo dove andare a cercare il suo pensiero ossessivo. Disegnare un ruolo così non è facile: il personaggio appare e scompare, quando arrivi devi riannodare i fili e rispettare gli appuntamenti che hai dato allo spettatore. Ti giochi tutto in meno tempo. Quando me l’hanno consegnata, non riuscivo a staccarmi dalla sceneggiatura, volevo sapere come andava a finire, abbandonarmi nel racconto. In effetti è quello che mi succede sempre con i libri di Niccolò».
Anche per lui l’avventura è stata bella, ma dura. «Confesso che non mi aspettavo fosse così faticoso. Era tutto nuovo per me, non solo sotto il profilo professionale, ma anche umano. Io sono abituato a un lavoro solitario, a non rapportarmi molto agli altri. E nel mio processo creativo i personaggi hanno sì vita propria, ma certo non mi rispondono», spiega il regista-scrittore, e nella voce senti il sorriso e la smorfia.
«Niccolò era sempre pronto a una discussione, a trasformare, a evolvere il tutto», conferma Rohrwacher. «Avere tre registi non è facile: sono tre personalità forti, con sguardi e punti di vista diversi, e questo ha portato a un bel processo di densificazione. Sono stati mesi di lavoro pieni di contenuto, di forza creativa. Amavo quell’attenzione, sempre diversa. La visione di Niccolò teneva assieme tutti i fili. È stato molto bello, diverso, farne parte. Sentivo quell’ossessione bella che è la necessità di tirar fuori una storia, in questo penso che Sandra sia un po’ il suo alter ego femminile».
Come la musica, che qui è qualcosa di più di una colonna sonora. «La cura il compositore messicano Murcof, straordinario. E poi c’è tanta musica di repertorio. I Tindersticks, con il loro melò anni ’50 tra archi e voce dissonante alla Nick Cave, che sentirete nella prima puntata con Another Night In. Il mio desiderio di evitare scelte banali mi ha portato a un percorso non coerente al racconto, ma alle immagini. Volta per volta. Ci sono i Godspeed You! Black Emperor, The House of the Rising Sun dei Santa Esmeralda. E poi Jimmy Fontana a cantare la sigla», conclude Ammaniti. «Il mondo è una strana canzone, che sentivo da piccolo e mi piaceva molto: ha qualcosa di metafisico, da accostare all’immagine di quella madonna. L’ho scelta già in sceneggiatura. Questa serie ha tante anime, è multiforme e con la musica ci tenevo che questa cosa “si sentisse”». Missione compiuta.