Il Pagellone di Rolling: una settimana di cinema di (e in) lotta | Rolling Stone Italia
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Il Pagellone di Rolling: una settimana di cinema di (e in) lotta

Tutto il meglio e il peggio delle uscite al cinema: i nostri voti

Il Pagellone di Rolling: una settimana di cinema di (e in) lotta

Questa settimana tutti i film migliori ci raccontano di una guerra personale che è metafora di una assoluta e universale. Politica e religiosa (L’insulto e Due sotto il burqa), metafisica (The Void), a colpi di pistola (Free Fire), contro e per se stessi (Il premio e, in qualche modo, Loveless), contro ogni buon senso e le proprie madri (Bad Moms 2). Il cinema tira fuori le palle, insomma.

L’insulto Voto: 8,5

“La sofferenza non è esclusiva di nessuno”. Un avvocato (apparentemente) cinico e baro sembra dirlo più a se stesso che al giudice, nella sua arringa finale. E tu così capisci, con un pugno allo stomaco, il senso profondo di un film che ti ha scavato dentro più di quello che sei disposto ad ammettere fino a quel momento. Come quando in un eccesso di rabbia uno dei personaggi urla “i palestinesi sono i negri degli arabi” o quando i due protagonisti, divisi da uno stupido litigio, dai loro insulti e un odio che li divora loro malgrado, si trovano uniti da una considerazione un po’ di buon senso e un po’ razzista, perché quando il nemico del tuo nemico è tuo nemico, allora forse non siete così diversi. Come quando la vittima dice al carnefice di essere una vittima a sua volta. O forse è il contrario. L’insulto è un ottimo legal thriller, un film politico di altissimo profilo, un’opera d’autore dove vieni spiazzato sempre all’ultimo momento, quando pensi di esserti adagiato su uno stereotipo o almeno su una facile certezza. Ziad Doueiri a noi di Rolling un po’ ha spiegato come ha fatto – con la ex moglie, coppia mista, ha switchato i ruoli dando a lei cristiana da scrivere il palestinese e a lui filopalestinese da scrivere il cristiano -, ma la magia de L’insulto sta nella disarmante onestà intellettuale, morale, storica del proprio racconto. Nella semplicità di scrittura, nei colpi di scena naturali e potentissimi, in quelle scene madri che ti inchiodano al muro delle tue piccole, mediocri ideologie, delle tue fragilità, dei tuoi pregiudizi. Toni e Yasser, macerati dal dolore dell’ingiustizia, reagiscono con violenza ad essa. Una violenza (auto)distruttiva, disperata. Uno scontro banale diventa caso di stato e in quel vortice trascinano un Paese. 
Anzi, il mondo intero. Perché noi ci scopriamo simili: il Medio Oriente è lo specchio di quello che è successo nei Balcani, poi in Afghanistan e Iraq, ora nelle città europee e non solo, in cui camion, furgoni, auto, kamikaze seminano odio. Il mondo si è “libanesizzato”, “israelizzato”, “palestinizzato”, l’odio è l’unica moneta corrente con cui pagare il conto di colpe altrui. Siamo tutti vittime colpevoli di non riuscire a rinunciare a quel motore velenoso, di tifare per gli uni o gli altri, siamo haters di carne e ossa. Doueiri, che in Libano è attaccato ferocemente da cristiano-maroniti e palestinesi, dalle destre e dalle sinistre, ha deciso di parlare con il suo cinema nitido, coinvolgente, lucido al limite del sopportabile, empatico sempre nel momento meno conveniente. E’ nato un maestro – l’avevamo già capito con The Attack – e, cazzo, in questo momento storico ne avremmo bisogno di tanti come lui.

The Void – Il vuoto Voto: 7

Se avessimo tutti noi un euro per ogni volta che Carpenter è stato saccheggiato da altri registi, saremmo ricchi sfondati. E, va detto, c’è da capirli: di solito citarlo o derubarlo nobilita anche i film peggiori. Se aggiungiamo che qui c’è Romero – c’è proprio, con La notte dei morti viventi che fa capolino e che sembra annunciarci che vi sarà un assedio con una folla che non diverrà mai un gruppo – e pure Lovecraft (i mostri sembrano fantasmi che preferiscono una sorta di aggressiva attesa) allora capisci che seppure la coppia di cineasti formata da Jeremy Gillespie e Steven Konstanski non ci mette molto del proprio, se non una diligente gestione di ritmi narrativi e di codici visivi, una scrittura essenziale e un intelligente sguardo sul mondo rinchiuso in un ospedale in dismissione (così come Carpenter fece in un distretto di polizia) sa però mixare alla grande le ispirazioni altrui. Ne esce alla fine un film buono, capace di angosciarti con quella violenza inspiegabile a cui segue l’assedio, con chi è fuori che vuole solo impedire di uscire, probabilmente nell’attesa di un piccolo armageddon. Si muove agilmente The Void nelle nostre paure e con immagini e suoni di impatto, lo fa per quasi tutto il film, per poi adagiarsi su un finale prevedibile, eccessivo, senza guizzi che avrebbero fatto fare un salto di qualità all’intero film. Ottimi replicanti i due registi, con qualche tocco personale. Non è poco, vista la qualità media non entusiasmante dei film horror degli ultimi anni.

Due sotto il burqa Voto: 6,5

Un fratello geloso, un’educazione rigida, un amore che vuole e può superare tutte le barriere, anche quelle di una religiosità assoluta. E se riusciva Lino Banfi in Belli Freschi a far innamorare un uomo, figuriamoci se non può riuscirci Félix Moati, bellissimo e molto sexy anche col niqab con cui tenta di rimanere vicino al suo amore non immaginando che quegli occhioni colpiranno pure il fratello radicalizzato in Yemen e ora deciso a reprimere le abitudini troppo occidentali della sorella. Commedia francese moderna un po’ troppo leggera e con conformismi di linguaggio un po’ irritanti, ma con meccanismi oliati e decisamente efficaci, ci ricorda che della guerra di religione che viviamo ogni giorno si può anche ridere, come già successo con Four Lions. A volte l’orrore va ridicolizzato per mostrarlo nel suo squallore grottesco, nella sua fragilità, perché ha spesso i piedi d’argilla. E se lo si fa con un’opera pop e popolare, per raggiungere più persone possibile, gli si perdona anche la modestia alla regia, basta lo script piuttosto solido. E il soggetto affonda nella notte dei tempi, perché la commedia degli equivoci sessuali funziona sempre.

Il Premio Voto: 6+

Che strano film Il Premio. Con momenti di grande forza visiva – Matilda De Angelis con il suo carisma e quella voce che suona e Wrongonyou (Marco Zitelli, ottimo esordio come attore e bella la sua colonna sonora impreziosita da Shoulders) che le proietta dietro e addosso un’installazione visiva; la rissa familiare al cocktail del Nobel – e altri di disarmante ingenuità, nella scrittura e nella messa in scena. Alessandro Gassmann paga sicuramente il legame emotivo con il film, quel Gigi Proietti che quando confessa la sopraggiunta sterilità creativa, a un migliaio di chilometri dal Nobel, addirittura nella voce sembra imitare il papà Vittorio nel declino della sua vita. E quei figli inadeguati sono lo specchio di chi il suo talento – e ne ha, parecchio: come interprete e regista teatrale – lo ha dovuto mettere alla prova con un mostro sacro, con il privilegio di finire sempre sotto esame (un esame impossibile da passare, non si batte mai un’icona), con l’illusione di poter gestire quella pesantissima eredità. Il Premio è il viaggio in cui dopo averlo combattuto, si riconcilia con lui. E come tutti i percorsi personali, sono istintivi, a volte semplici e ingenui, altri profondissimi. Non si è preoccupato Alessandro Gassmann di fare qualcosa che piacesse ai critici ma piuttosto di parlare al pubblico, alle loro ferite, ai loro piccoli e grandi dolori, senza mai perdere il sorriso (non a caso in scrittura troviamo quel Max Bruno che al film dà la pista comica e corrosiva, rafforzando anche quella malinconica e di formazione: curioso che con il bel libro Non fate come me, quest’ultimo fa un viaggio molto simile). Ne esce fuori un’opera bizzarra, molto classica nella forma ma affatto scontata nei contenuti, con un Proietti che si dimentica per una volta di se stesso ma non troppo (c’è autoironia, forse, in questo maestro disincantato), Anna Foglietta e Rocco Papaleo che si mettono al servizio del film con umiltà e il loro talento cristallino, Gassmann che si prende il ruolo più scomodo. Certo, si adagia sui talenti degli attori, qualche tappa è troppo “facile” ma saremmo bugiardi a dire che non siamo usciti con un sorriso e una carezza sul cuore. Forse si poteva fare di più, anzi di sicuro. E questo suggeriamo al regista: ora, come già riesce a teatro, nel suo cinema ci metta quel po’ di cattiveria e originalità in più. Qui, forse era giusto così: aveva un conto da saldare con se stesso.

Free Fire Voto: 5,5

Due bande di criminali più o meno improvvisati, tra cui un hipster, un belloccio, una bad girl elegante, una spalla ruvida e violenta, i fessi del gruppo e altri comprimari che vengono dal catalogo delle caratterizzazioni più comuni nei film di genere, tanti spari e ottima musica, di John Denver in particolare. Non basta questo per superare la sufficienza, ma per arrivargli vicino sì, soprattutto se poi dimostri che se anche ti produce Scorsese, tu hai mandato a memoria la lezione di Guy Ritchie, quella per cui la legge di Murphy, quando tutti hanno in mano armi da fuoco, può essere il motore migliore per un film di puro intrattenimento. Free Fire non è altro che questo, entertainment puro, una sorta di loop campionato da mille altri lungometraggi di questo tipo, che va avanti con il pilota automatico. Ben Wheatley sembra non volerci mai mettere qualcosa di suo: prova a infilare Tarantino nel racconto, soprattutto comico (solo nelle intenzioni) dei personaggi, Scorsese in alcuni dialoghi muscolari, John Woo quando tutto va nei casini e appunto Ritchie a far da collante. Si salvano This Old Guitar che parte da una cassetta audio stereo 8 (quanta nostalgia, vale pure per i The Real Kids e Run Through the Jungle dei Creedence Clearwater Revival) nel furgoncino, Brie Larson che dà spessore a un ruolo scritto male e la durata. Senza infamia e senza lode.

Loveless Voto: 5

Lo sentirete elogiare da tutti questo film. Andrej Zvyagintsev è quel regista ingiustamente massacrato per aver “rubato” il Leone d’Oro a Buongiorno, Notte di Bellocchio con il bellissimo Il ritorno. Uno di quei film da cui è difficile uscire, dal giogo del quale è complesso liberarsi. Lui sembra non avercela fatta, così legato a uno schema di tragedia personale e familiare che ora si è fatta maniera. Eppure Zhenya e Boris, il loro rancoroso e meschino amore finito, quel figlio mai amato e che sono obbligati a cercare insieme, sembravano un ottimo spunto. Ma poi il cineasta si nasconde dietro le sue certezze, quei silenzi insistiti e la macchina da presa che, se lo conosci, sai dove andrà e lo farà sempre troppo lentamente, senza mai farti sentire addosso quel ghiaccio bollente che alberga nei cuori induriti della coppia. Loveless è un’opera d’autore fatta per i critici, per farsi amare nei festival e nei salotti giusti, con tutto ciò che ci si aspetta da un’arte che sa essere fredda e punitiva e incredibilmente ripetitiva. Con codici estetici e narrativi che sembravano vecchi già all’esordio del buon Andrej. Loveless lo accettiamo, anzi lo glorifichiamo solo per quell’esterofilia piuttosto sterile che pervade gli intellettuali che la sanno lunga. E invece è un film minore di un bravo regista piuttosto sopravvalutato e ancora schiavo di un capolavoro forse arrivato troppo presto.

Bad Moms 2 Voto: 2

Il voto così alto si deve a Mila Kunis. Quando c’è lei sullo schermo, non pensi ad altro. Neanche a un film imbarazzante nella scrittura di un mamme contro figlie (a loro volta madri) che sa di cliché stantio asservito a una comicità che fa sembrare quella del Bagaglino raffinata e ricercata. E dire che qualche speranza, viste le presenze di Susan Sarandon e Christine Baranski (se non sapete chi sia, correte a recuperare quel capolavoro di The Good Wife), la riponevamo in uno dei sequel più inutili e mediocri della storia del cinema. Soprattutto valutando l’inconsistenza del primo capitolo. Salvate gli studios dalle decisioni meramente finanziarie. O almeno salvate noi da loro.