La verità l’ha detta per tutti il fratello Enrico nel suo discorso funebre di fronte a tutto, o quasi, il cinema italiano. Carlo Vanzina non era affatto il regista di un cinema comico considerato a torto minore, era un regista superiore. Come spesso capita di fronte al cinema davvero popolare, questo non lo abbiamo capito subito, ma nel tempo. Vedendo e rivedendo i vari Vacanze di Natale, Sapore di mare, I fichissimi, Eccezziunale veramente, Yuppies. Capolavori di comicità che già ai loro tempi erano perfettamente in linea coi capolavori della commedia all’italiana dei padri, Steno, Mario Monicelli, Dino Risi. Ed erano sinceramente più attuali di tante opere impegnate del post-post-morettismo.
Allora, anche noi critici più snob e dinamitardi, adoratori di Bombolo e Cannavale, di Nando Cicero e Marino Laurenti, avevamo di che ridire non tanto dei singoli film, che facevano davvero molto ridere da subito, a noi, ma non certo ai critici dei giornali più importanti, quanto dell’operazione ideologica dei Vanzina bros. La rilettura degli anni ’60 e delle vacanze sulla neve alla Camillo Mastrocinque con gli occhi degli anni ’80 e il gusto un po’ pariolino. Il desiderio di ripercorrere la commedia all’italiana più classica e il non buttarsi sulla commediaccia delle professoresse e delle soldatesse piene di rumoracci e culi sotto la doccia. Chi era di retroguardia, allora? Eppure, quando esplose, già nei due film dei Gatti diretti da Carlo Vanzina, Arrivano i gatti e Una vacanza bestiale, Diego Abatantuono, e poi si lanciò al grido di Viuuulenza!!! in Eccezziunale… veramente, capimmo che la strada era quella giusta. Che Carlo e Enrico Vanzina erano entrati, magari passando per Piazza Euclide, nel pieno della nostra stessa rivoluzione. Magari al grido di “Al pettine, Ramon! Al pettine”, grido di battaglia di Abatantuono nel film più vanziniano di papà Steno, Fico d’india.
Una rivoluzione che non si sarebbe più fermata, condotta con tutta l’intelligenza e la signorilità dei due brothers, come li chiamva il Dogui. E che rendeva da subito vecchio anche il cinema dei padri. Taac! Solo i brothers avrebbero potuto ideare i due magistrali episodi di Fratelli d’Italia, diretto da Neri Parenti, ma scritto interamente da loro, dedicati uno al tifo calcistico, con Bernabucci & Mattioli tifosi “orendi” della Roma in viaggio con Massimo Boldi milanista che si finge romanista ma che si chiama, ironia della sorte, Carlo Verdone. L’altro con Christian De Sica, in vacanza in Sardegna, che si finge figlio di Carlo De Benedetti. Rodolfo…
Rispetto al cinema che i padri nobili della commedia stavano facendo allora, e che noi critici oltranzisti trovavamo allora ben poco interessante, Carlo e Enrico stavano riscrivendo la commedia all’italiana in termini moderni. E personali. Un processo che sarebbe andato avanti, con risultati anche alterni, per molti anni. E che non capimmo sempre subito. Altri non lo capiranno mai, ahimé. Ma che i brothers stessero compiendo un miracolo di rivitalizzazione della commedia classica inserendoci dentro temi di attualità mai toccati prima e reiventando tutto il parco attori che il nostro cinema aveva a disposizione, beh, questo era sotto gli occhi di tutti.
Pensiamo solo agli Yuppies, al mondo della moda e della Milano da bere, alle finte bionde romane che vendono intimo a Piazza Vigna Stelluti, quelle del “E mo’ so dolori de panza per tutte”, o del “Sta papaya me se rinfaccia”, o ai rapporti tra colf e fidanzati romani cafoni (“Mi porti al Piper?” – “Ma quale Piper, qui dobbiamo andare a scopà”), ai primi riconoscimenti gay, “Frocio, papà… diverso!”. Ovvio che la sinistra, anzi, il “cinema de sinistra”, ottusamente guttusiano, non lo volesse capire. Già non aveva capito Sergio Leone, Sergio Corbucci, Sergio Sollima, che diventeranno, non a caso, grazie a Cuchillo e a Vamos a matar, companeros!, gli eroi dell’ultrasinistra gruppettara anti-pci, come non aveva capito il grande cinema comico di Steno e Risi anni ’60, che verrà mediato solo dal regista di commedia di partito, Ettore Scola. Come non capirà mai Monnezza, Bombolo, la commediaccia. E finirà per opporsi al cinema dei brothers per ragioni quasi geografiche. Opponendo alla commedia dei Parioli, a torto considerata di destra, la commedia morettiana prima, post-morettiana dopo. Non capendo, inoltre, che Carlo e Enrico, morti i generi nel nostro cinema, li stavano rivisitando inglobandoli nel loro cinema. E, alla fine, se vogliamo capire qualcosa di mani pulite, ahimé, e dico ahimé pensando alle stroncature critiche del tempo, dobbiamo vedere il loro S.P.Q.R. con Christian tangentaro e molestatore al grido di “Iside, famme na pompa!” e Boldi giudice milanese alla Di Pietro.
Ma il problema più pesante, per il “cinema de sinistra”, era il fatto che i brothers lavorassero per Silvio Berlusconi e ne incarnassero in qualche modo la filosofia mediatica. Anche se lo facevano prima che entrasse in politica. Quando Berlusconi era solo un specie di superpersonaggio vanziniano, un simil Dogui. E anche il Moretti di Bianca, ricordiamo, era prodotto da Reteitalia. I Vanzina saranno non solo una sorta di braccio produttivo del cinema di Berlusconi, che fino allora era stato solo scottato dal rapporto coi cinematografari romani, pronti a spillare soldi facili dai cumenda, ma riusciranno a delinearle, assieme a teorici della tv come Carlo Freccero, responsabile della programmazione cinematografica delle reti Mediaset, che fu il primo a portare i film di Edwige Fenech sul piccolo schermo, e a Antonio Ricci, autore di Drive In e poi di Striscia, tutta la sottile costruzione estetica.
La tv anni ’80 e primi ’90 di Berlusconi deve molto ai brothers, come deve molto a Ricci e a Freccero, che erano riusciti, dopo gli anni di piombo, a compiere il salto mortale di farci ridere di noi stessi che guardavamo i lustrini e le ragazze in carne dei programmi di Canale 5. La tv, a differenza del cinema, poteva permettersi di fare da ponte tra Sabina Guzzanti e Moana Pozzi, tra lo Scrondo e un Silvio Orlando pre-morettiano. Lì, ai tempi della non dimenticata Araba fenice, Ricci e Francesco Salvi si permisero il lusso dell’imitazione di un Carlo Vanzina in grado di fare un film ogni cinque minuti.
Carlo, che pure aveva unito le tante anime della tv berlusconiana pur travasandole nel suo cinema, diventava parte del gioco comico. Ora. La velocità di realizzazione nel fare un film di Carlo Vanzina, al di là della parodia, era reale. Ma anche la velocità con cui capiva e precorreva i tempi nella satira politica, nella costruzione dei nuovi personaggi degli anni ’90. Al punto che furono i primi a mettere in scena, con Il pranzo della domenica, lo scontro tra sinistra e destra all’interno delle famiglie italiane ai tempi del Berlusconi sceso in politica. Ma lo fecero da un punto di vista assolutamente non berlusconiano. Questo stupì i critici benpensanti, ohibò. Mentre io, ricordo, che ebbi da ridire. “Quando devono fare il film su misura per i Parioli”, scrivevo, “i Vanzina sono troppo precisi e non solo non ci sorprendono, ma addirittura peccano di troppo politicamente corretto. E lo si dice di fronte a un film che in pieno berlusconismo, osa sfidare apertamente uno dei temi più impossibili, almeno per un regista di sinistra (ma i Vanzina cosa sono?), cioè il rapporto destra-sinistra all’interno di una famiglia pariola”.
Più che domandarci se i brothers fossero di destra o di sinistra, quando poi i Parioli, assieme a Garbatella, saranno oggi l’ultima roccaforte PD (ma il PD è di sinistra?), la cosa interessante è che seguitavano a mettere in scena storie attuali, che il cosiddetto cinema di sinistra, chiuso spesso nei maldipancia autoriali piccolo borghesi, non capiva. Ricordo un Maurizio Mattioli diventare palazzinaro corruttore in uno dei loro ultimi film, Non si ruba a casa dei ladri. Proprio quando molti produtturi romani flirtavano col potere di Balducci senior per fare i film.
“Politicamente, da che parte sta?”, gli chiedono. E lui: “Mah, adesso l’importante è starci, facilitare…”. Ecco. Temo che dovremo presto rivederci, oltre a Vacanze di Natale e a Eccezziunale… veramente, anche gli ultimi film di Carlo Vanzina, ancora una volta non troppo amati dalla critica. E ancora una volta così avanti e liberi. Quelli dove si sentono battute come “A te la grande bellezza te fa na pippa!”, “Er culo cosa?”, “Tié, a te e a De Laurentiis!” O quelli dove la new entry Max Tortora si lancia in “Sta Miami sembra Freggene!” e fa lo scarparo cafone del centro (“So scarparo e ci ho il 48 de piede, quindi se te pijo te faccio male”) e sulle polacchette non ti toglie più del 25% di sconto.
Ma quello che dava e ancora seguita a dare noia alla critica benpensante e all’altro cinema è proprio la dote più clamorosa di Carlo regista, del saper unire, con leggerezza, ironia, eleganza, mondi diversi. La comicità più cialtrona con l’analisi politica, il generone romano e i critici più snob. A quale funerale puoi trovare insieme Silvio Berlusconi e Paolo Sorrentino fresco di Loro? Viperetta a fianco di Aurelio De Laurentiis? Ecco. “A te la grande bellezza te fa na pippa!”, giustamente.