Come ogni volta, la sera per raggiungere il cinema uso la metro. In periferia a Milano, dove salgo, già alle nove non c’è più nessuno in giro, se non i soliti fantasmi. La guardiola ai tornelli è vuota, così come il vagone in partenza. Poi, fermata dopo fermata, un po’ si riempie. Rispetto al solito però sono distratto e mi accorgo di guardare ogni volto senza in realtà vederlo davvero: dal manager stanco, al rosario sceso a Porta Genova, fino agli studenti americani già ubriachi. Ho la testa al film che mi aspetta, una coltellata precisa e bastarda che riaprirà una ferita che a stento riuscirò a chiudere. Si tratta di un documentario presentato fuori concorso al Milano Film Festival e intitolato Jannacci, lo stradone col bagliore, in cui il regista Ranuccio Sodi, grande amico di Enzo, risfodera dai suoi archivi privati degli stralci mai visti e ripercorre la vita dell’Artista.
Entro deciso al Parco Sempione, saluto il proiezionista, ancora sereno e inconsapevole che per lui sarà una serata difficile (il film si bloccherà per alcuni minuti), poi prendo posto rapidamente. Introducono gli amici di sempre: Paolo Rossi, che racconta quella volta in cui Jannacci da Costanzo diede del ladro a Berlusconi dietro le quinte, e Cochi Ponzoni, il più emozionato di tutti. Poi spazio al film, ottanta minuti che filano lisci come l’olio, ma che lentamente mi fanno sprofondare in una malinconia ormai dimenticata. Ed è questo il momento in cui capisco perché fremevo all’idea di ritrovare la sua musica e i suoi testi da poeta. Semplicemente perché mi ricordano una Milano che non ho mai vissuto, ma che conosco quasi a memoria grazie ai racconti dettagliati di mio nonno. Un terùn arrivato in città da giovane che, come ipnotizzato da Giucas Casella, mi ripeteva via per via e piazza per piazza come tutto prima fosse diverso. Il prestinaio in Ticinese che ha chiuso nel 1982, o il Trani (così chiamavano qui i bar) che gestiva in Porta Lodovica insieme ai fratelli e al padre.
Le interviste e le canzoni di Enzo mi sanno appunto ricondurre a quelle storie, alcune inventate, ma tutte comunque dense di un’atmosfera che oggi non c’è più. Si trattava di una Milano fredda, nebbiosa, e in cui i meridionali alle volte non potevano entrare nei negozi, ma in cui si respirava un’aria diversa, più goliardica, più umana. Un cuore pulsante collettivo, che riprende vita grazie a canzoni come Vincenzina e la fabbrica, Vengo anch’io, T’ho compraa i calzett de seda, Io e te, Il cane con i capelli. Tutti pezzi folli, spesso senza un apparente senso, che in realtà nascondono la vera essenza della milanesità. Essere nati qui vuol dire essere toccati da queste strofe. Non c’è scampo. Perché Jannacci era questo, un personaggio che con i suoi deliri, degni del miglior poeta del secolo, ha segnato non solo una generazione, ma tutta una città. Mica male per uno che pensava di essere destinato a morire da saltimbanco.