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Jim Carrey e le confessioni di una mente pericolosa (la sua)

"Jim & Andy: the Great Beyond" è l'incredibile storia del profondo rapporto virtuale tra l'attore e Andy Kaufman

Ci sono momenti in un festival in cui vieni rapito. Da un’opera e da un artista che decidono di strapparti il cuore, spappolarti il cervello, portarti dove non credevi. È quello che è successo a Venezia 74: molti, fiaccati dal Mother! di Darren Aronofsky, grottesca decadenza di un autore nell’abisso delle sue distorsioni creative, non si sono fermati in Sala Darsena a guardare l’opera fuori concorso Jim & Andy: the Great Beyond – The story of Jim Carrey & Andy Kaufman with a very special, contractually obligated mention of Tony Clifton di Chris Smith.

E di sicuro se ne sono pentiti. Perché in un bel festival in cui Martin McDonagh, Guillermo Del Toro e Paolo Virzì hanno regalato gioielli, il capolavoro è forse proprio questo documentario straordinario e straniante, con uno dei più grandi artisti dell’epoca moderna, Jim Carrey, che si confessa, senza pudori né retorica, specchiandosi, come vent’anni prima nel genio folle e autolesionista di Andy Kaufman.

«Nella mia vita ho voluto distruggere Hollywood, non volevo farne parte», ha detto Jim, conquistando Venezia, perché come si era donato a Kaufman in Man on the Moon, fino a non sapere «più chi fossi, che opinioni politiche avessi», ora a 55 anni, con un film, si riappropria di sé, di quell’esperienza, tirando le fila del materiale di repertorio, di scene del film e del backstage, attraverso un’intervista che è confessione di una mente pericolosa. A modo suo, chiudendo con un dissacrante e malinconico «e se avessi interpretato Gesù cosa avrei fatto?». Rimani lì, dopo un’ora e mezza, a chiederti cosa sia quel film meraviglioso, straziante, lacerante. Se la fine del percorso di un uomo che ha avuto tutto, forse lo ha perso e ora l’ha riconquistato con una barba da santone – non la fama, ma appunto se stesso – oppure l’ennesima grande interpretazione di chi attraverso maschere, macchine che cancellano i ricordi e Truman Burbank, l’alter ego che forse non ha mai abbandonato – ha riscritto le nostre psicosi collettive e anche la consapevolezza dell’essere umano Carrey.

Kaufman, in cui si calò, nell’inquietudine di tutti, completamente e senza rete, portò a squassare una comunità d’artisti, da Giamatti a De Vito, spesso sconvolti, a quel Milos Forman che all’inizio non lo voleva, fino a chi Andy l’aveva conosciuto. Molti lo seguirono in quell’abisso, ma nessuno scese così a fondo: lui, che allora guadagnava più di tutti e con gli occhi lucidi, in un’intervista, diceva “se tutto va bene non potrò più neanche uscire di casa”, si trovò a specchiarsi in un’altra anima ribelle, senza filtri, intenta a trovare l’arte assoluta dentro di sé, così dedita al pubblico da dimenticarsi del bambino che stava dentro il comico, generoso fino al parossismo, devoto all’intrattenimento e alla provocazione tanto da affrontare sfide pericolose, anche fisicamente. Una mimesi psicologica e psicotica, fisica e fisiognomica, totale e totalizzante che ti lascia sempre nel dubbio se siano il cuore e la mente di Jim a parlare, se ci siano schegge di Andy a tornare o se sia, semplicemente, un’altra grande interpretazione, forse la più bella, del grande attore. I suoi occhi sembrano dirti tutto, ma anche nasconderti più di quello che ascolti, non puoi vedere con distacco un viaggio di un uomo che è alle prese con la sua Moby Dick senza essere lì, sulla sua nave, sapendo però che un Achab è irrimediabilmente solo.

«L’onestà è sovversiva» dice in conferenza stampa, «un uomo è fatto delle sue idee, il concetto di io è una sovrastruttura» e tante altre frasi potenti, aforismi dell’anima, sembrano denunciare la verità di quest’operazione. Eppure quello sdoppiamento non sembra essersi riunito sotto quella barba, quanto piuttosto essere diventato convivenza e non occupazione.

Nelle immagini dal set, rimani sconvolto dalla violenza con cui Jim aderiva ad Andy – «è Kaufman il vero autore del documentario» dice ridendo il primo -, con cui litigava con amici, nemici e attori che rappresentavano i suoi affetti, dal moltiplicarsi delle personalità (l’alter ego Tony Clifton su tutte), dall’empatia con ogni momento della sua vita, persino il più tragico. Non c’è un metodo, non c’è Actor’s studio, ma un uomo che salendo fino in vetta si è spezzato – Jim? Andy? Entrambi? -, si è trovato nudo alla meta, ha scoperto che quell’assegno di 10 milioni di dollari che si è firmato da solo come un obiettivo e che poi ha messo nella tasca dell’amato padre prima di chiudere la bara, gli ha forse comprato l’anima. O affittata, a un altro. «Noi non siamo niente ed è un fottuto sollievo», afferma davanti ai giornalisti, quasi a voler esorcizzare un progetto che ha voluto con tutto se stesso per poi sorprendersi «che Chris, il regista, abbia trovato qualcosa nelle mie parole, qualcosa di così totale».

È sbarbato, ha il giubbotto di pelle, è bello e brillante. Sembra essere tornato a vent’anni fa. Ma quando ripete che «l’onesta è sovversiva a Hollywood, nella città delle maschere che io volevo abbattere così come gli ego alla Clint Eastwood» capisci che le rughe le ha dentro. Profonde come le sue ferite. E che Man on the moon gli cambiò la vita, demolendolo e spingendolo a ricostruirsi e che forse solo ora lo racconta, perché i pezzi sono quasi tutti al loro posto (sebbene sia stato recentemente attraversato dalla tragedia del suicidio dell’ex fidanzata). «Questa è una meditazione sul successo, sui sogni, sui concetti di verità e arte». E alla fine di questo film capisci che il genio di Jim Carrey ti pone proprio quel quesito: lui e Andy, lui dentro Andy e viceversa, il film e la vita, sono verità o arte? Forse, nessuna delle due.

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