«Non volevano farlo, quel video. Fu Jacko a insistere, dopo che John Landis accettò: e allora ci inventammo il modo». A parlare è John Branca, avvocato di Michael Jackson ai tempi e ora star tra i legali dell’entertainment statunitense, tanto che Vogue gli ha dedicato un servizio dal titolo The Dealmaker.
Elegantissimo, accompagnato da una mora mozzafiato, è un paladino dei diritti d’autore e al di là del successo tra musica e cinema, sta riuscendo a portare alla solvibilità l’immenso e devastato patrimonio del re del pop. Mettendolo a frutto (più di 300 milioni già recuperati, tra guadagni e crediti recuperati). «La Sony non voleva farlo, il video. Era passato un anno e mezzo dall’uscita e le vendite dell’album erano in calo. Dicevano che era antieconomico». Ma il re del pop sapeva quanto valesse quell’insieme irripetibile di pezzi che sarebbero entrati nella storia. «Michael vide Un lupo mannaro americano a Londra e si convinse che Landis poteva trasformarlo, con Rick Baker, in un mostro e rendere grande Thriller. E allora ci inventammo il Making of che vendemmo a Cbs e che coprì metà delle spese del video più costoso del mondo, forse, fino ad allora. Il resto venne da Mtv: fu il primo artista nero ad avere il privilegio dell’esclusiva su quel canale». «Risultato?», interviene un sorridente Landis. «Vendemmo 10 milioni di VHS del making of – Michael amava così tanto i suoi fan che pretese di venderlo a 24 dollari e 95 centesimi in un periodo in cui ancora costavano uno sproposito le videocassette – e l’album triplicò i suoi acquirenti, diventando il più venduto al mondo. Nella storia».
Chissà che nella precisazione non ci sia parte dell’amarezza di aver dovuto “litigare” sulla sua percentuale per decenni. «Ora è tutto a posto», taglia corto, e torna a raccontare di Michael Jackson. «Era un bambino, guardavamo i cartoni insieme, lo prendevo in braccio e gli facevo il solletico. Ho potuto vederlo ed essergli amico nel momento migliore, umano e professionale. Era generoso ed era un genio: avevamo voglia di dare – lui, Rick ed io -, il meglio, e lo abbiamo fatto. Lo amo quel ragazzino, tuttora». E confessa, «Siamo stati vanitosi, ma ce l’abbiamo fatta. Anzi, ci siamo riusciti per quello, perché volevamo tutto. Ecco perché non sopporto che da allora abbiano girato, soprattutto su YouTube, copie del video non originali. Ora c’è, l’abbiamo restaurata e rifatta in 3D e ne sono ancora più orgoglioso».
Quel 3D che il re del pop sognava di usare nel tour This is It. «Gli sarebbe piaciuto, ne sono sicuro. E te lo dico, era anche un grande attore. Aveva sempre idee: nella scrittura del video così come nelle coreografie, ma pure come interprete era sorprendente, capace di far uscire la sua magia con un’espressione. Guardalo in The Wiz, così piccolo e già così bravo. Lo conoscono in pochi, ma si vede che anche al cinema avrebbe sbancato». E non era solo un dono della natura. «Imparava in fretta, quello che per gli altri arrivava dopo anni di studio ed esercizio lui te lo regalava in 20 minuti». Inevitabile non fantasticare su un matrimonio cinematografico tra i due. «Non ci ho mai pensato: allora lui guadagnava troppo, a Hollywood non sarebbero mai riusciti a dargli altrettanto e ad assecondarne idee e sogni. Non dimentichiamoci che lui era un’industria».
non volevo un videoclip, ma un cortometraggio, qualcosa di nuovo e diverso
È un fiume in piena, Landis, felice per il passaggio a Venezia 74 del suo piccolo grande film di 16 minuti – «non volevo un videoclip, ma un cortometraggio, qualcosa di nuovo e diverso» – Thriller 3D. E insieme, ecco il famoso Making Of Michael Jackson’s Thriller diretto da Jerry Kramer (sì, proprio il regista di Moonwalker nel 1988), sorprendente per la naturalezza con cui mostra quel rapporto, quell’atmosfera, quel talento che si mescolava a tecniche sopraffine. Ma rifiuta ogni paragone con Belushi. «Erano un po’ pazzi e geniali, solo quello avevano in comune. Per il resto, erano diversissimi. Aspetta, anche John ballava bene a pensarci su». Gli manca, non ne parla, un velo di malinconia passa. Sussurra un «non si è ancora capito quanto fosse grande, anche io a volte non credo a quello che mi ha fatto vedere» e passa avanti, parlando di «come abbiamo recuperato il negativo di Thriller in 35mm e lavorato su ogni singolo fotogramma: ad averne beneficio sono stati i numeri di ballo». E aggiunge «come il documentario su Pina Bausch, Pina 3D, è pazzesco come questa tecnologia valorizzi corpi e movimenti. Il 3D come la VR (è il presidente di giuria della nuova sezione al Lazzaretto del Lido, la Virtual Reality) dà nuove visioni, angoli e prospettive».
Lui per Thriller ha preferito una stereoscopia più classica, sfruttando anche il racconto visivo e narrativo, classico prodotto di genere con citazioni e scene madri che favorivano l’”uscita” dallo schermo del divo e dei suoi zombie, con primi piani, come l’ultimo, adattissimi al 3D. Ma è nel Making of di 45 minuti, nato come accessorio “alimentare” per costruire il sogno di un videoclip ambizioso, che capiamo la potenza di quell’uomo magrissimo e indifeso, ma dotato di un talento immenso. C’è tutto in quel documentario, in quel backstage: l’ispirazione che dava a tutti, il matrimonio tra due menti bambine, eclettiche, geniali come quelle di Landis e Jackson, l’ossessione per i dettagli di entrambi, le parole di chi ha avuto la fortuna di lavorare con loro. “Voi forse non vi rendete conto che spettacolo fossimo: mi perdevo a guardar lavorare Michael Peters (il coreografo) e Rick Baker (il mago del trucco e degli effetti speciali), per non parlare dei ballerini” ricorda l’autore di Animal House e The Blues Brothers.
L’emozione di spiare, sul set, il re del pop e capire che forse solo i Beatles hanno saputo, come lui, mixare generi, toccare vette contrapposte e coprire lo spettro della creatività con tanta originalità e diversità in un decennio e poco più. Per di più nel pop. «E pensare», ride Landis, «che di me aveva visto solo Ridere per Ridere e Un lupo mannaro americano a Londra. Non conosceva la mia parte più musicale, eppure l’aveva capita comunque». Anche se poi lo chiama perché vuole diventare, con lui, un lupo mannaro e uno zombie. «E lui non amava l’horror, anzi! Non aveva mai visto Frankenstein o L’uomo lupo. Un altro modo, per lui, per superare i propri limiti». John Landis, che negli anni ’80 e dintorni ha cambiato la sua arte e il modo di girare e anche pensare il cinema e la commedia di genere, è ancora pieno di energia. E sui progetti che ha in mente non dice «nulla. Amo farlo solo quando ci sono, quando possiamo vederli entrambi. C’è un progetto, questo te lo dico, e non vedo l’ora di iniziarlo, spero entro pochi mesi, ma non ti dirò nulla. Dopo, dovrei farti fuori».
Ucciso da John Landis, magari nel finale di un suo film: potrebbe anche valerne la pena.