Siamo il paese del populismo invidioso. Noi non vogliamo il potere di migliorare questo paese, vogliamo quello di farlo fallire. Se non abbiamo qualcosa, vogliamo che non ce l’abbiano tutti invece di provare a creare un diritto a cui possa accedere chiunque. Il miglior esempio di questo folle atteggiamento è la lotta contro l’aborto. Chi non è d’accordo sul fatto che esista, non si limita a non abortire: pretende che l’universo mondo non lo faccia. Togliere – ad esempio i negozi aperti di domenica – per noi è più importante che aggiungere, migliorare, allargare il campo delle possibilità. È un po’ come se io non potessi comprarmi mobili ed elettrodomestici per la mia abitazione, ma mi sentissi soddisfatto nel momento in cui qualcuno li sequestrasse dalle case dei miei vicini. La mia condizione non migliorerebbe, ma peggiorerebbe quella dei miei simili. Vale per la politica, vale per il lavoro, vale persino nelle situazioni sentimentali (se la mia ex o il mio ex mi lasciano e io soffro, sono felice se vengono mollati a loro volta). Siamo un popolo di egoisti autolesionisti.
Ecco sul caso Roma, il film di Alfonso Cuaròn che ha vinto il Leone d’Oro a Venezia e che è stato prodotto e verrà distribuito da Netflix, si sta reagendo in questo modo. Dai comunicati ufficiali di associazioni di categoria (Associazione Nazionale Autori Cinematografici, la Federazione Italiana Cinema d’Essai, l’Associazione Cattolica Esercenti Cinema, che immaginiamo sicuramente chiudono le sale nel giorno del Signore, ma non, e questo è interessante, l’Associazione Nazionale Esercenti Cinema) che ludisticamente e anacronisticamente urlano alla morte del cinema a causa del cerbero in streaming a una parte della critica e dell’industria che, anche con qualche supponenza, guarda sorridendo alcune giuste paure e diffidenze bollandole come “passatismo”.
Perché nel mondo dei social, dei sondaggi, della radicalizzazione delle opinioni (solo di quelle, ahinoi) – così i like, le condivisioni e i retweet arrivano copiosi (ma fermiamoci qui, sennò cadiamo nello stesso tranello) -, avere un parere che non sia solo un peana o un rifiuto categorico è penalizzante. Dimenticandosi, peraltro, chi si oppone senza se e senza ma che la storia non si fa con i no: se rifiuti il progresso, purtroppo, ottieni solo sconfitte. Anche perché il passato spesso è insostenibile, il presente è miope e il futuro è cinico. E in tutti i campi non puoi giudicare con le lenti di decenni prima ciò che è cambiato totalmente, in termini innanzitutto di quantità.
Netflix ai festival è un tema aperto da Cannes. Anzi, chiuso. Frémaux, il direttore, con la tipica prosopopea del dinosauro che rifiuta la glaciazione imminente ha sbarrato la strada a chi, a ora, nell’industria audiovisiva pesa con 130 milioni di utenti, quasi un centinaio di lavori prodotti nel 2018 (non ancora finito), 11,5 miliardi di dollari investiti nella produzione e una diffusione in 190 paesi (dati di El Paìs, ben riassunti dal collega Pedro Armocida sul suo profilo Facebook). Una risorsa preziosa per un cinema asfittico, ma soprattutto un player che non può essere ignorato.
Risultato: un periodo di crisi per il festival più famoso del mondo, ben sfruttato dal direttore di Venezia, Alberto Barbera, che ha aperto – non avendole mai chiuse – le porte del Lido al colosso di Los Gatos. E ora si ritrova nell’albo d’oro il primo Leone d’Oro targato Netflix. Celebrato da chi ama senza riserve quest’ultimo, osteggiato da chi grida allo scandalo “perché un festival pagato anche coi nostri soldi è diventato uno strumento di marketing per una piattaforma streaming a pagamento”. Per cominciare, bisognerebbe dire che è l’informazione a essersi fatto strumento di pubblicità gratis per Netflix. Ha vinto Roma di Cuaròn, la notizia è questa: che sia di Netflix lo stanno dicendo i media mentre non ricordo che per gli altri vincitori passati in Laguna ci si impegnasse così tanto a ricordare chi li avesse prodotti o distribuiti. Ma al di là di questo particolare, va capito perché tutto questo faccia così tanta paura. Semplificando possiamo dire che si teme lo svuotamento delle sale, la concorrenza sleale, la violazione della sacralità della fruizione dell’opera d’arte nelle sue condizioni ideali.
Bene, proviamo a fare ordine. Le sale, semplicemente, non si svuotano per questo motivo. E se lo hanno fatto, è stato a causa non della N rossa, ma dell’invenzione della tv. Quando il cinema ha smesso di essere centrale nel sistema dell’immaginario e dell’intrattenimento, oltre che del dibattito culturale, diventando una nicchia, enorme, ma comunque una nicchia, i pubblici si sono differenziati. Chi va al cinema, semplicemente, non si accontenta di vedere un film su un monitor o nella migliore delle ipotesi su un maxischermo casalingo. A dimostrarlo è Sulla mia pelle: esce in contemporanea il 12 settembre su Netflix e in sala. Bene, sarà su più di 70 schermi, a occhio e croce, e per un film come quello è la distribuzione ideale, che avrebbe avuto comunque anche senza l’uscita in streaming. Le sale si svuotano per i 30 minuti di pubblicità che devi subire nei multiplex, per i pessimi impianti audio e video, perché inospitali e sporche, perché quasi sempre con una programmazione tiranneggiata dai grandi distributori, perché molti esercenti trattano i film come pezzi di carne, senza crederci mai abbastanza e non puntando su quella “tenitura” che ha fatto la fortuna di tanti registi, né sforzandosi di capire cosa desiderano gli spettatori.
Da appassionato di calcio, questo dibattito mi ricorda il terrore con cui molti pensavano che le pay tv avrebbero svuotato gli stadi. Lo hanno fatto, sì: con quegli stadi in condizioni ignobili o che offrono uno spettacolo scadente, come il San Paolo o l’Olimpico. San Siro continua a riempirsi, nonostante i risultati deludenti di Milan e Inter: lì le partite si vedono benissimo e i servizi sono efficienti. Le sale cinematografiche continueranno a svuotarsi se Netflix offrirà agli spettatori una qualità migliore come esperienza globale.
Passiamo alla concorrenza sleale: i costi di Netflix sono più bassi, evitando la sala, è vero. Ma va sottolineato come marketing e comunicazione siano più curati e di alto livello di un qualsiasi film che arrivi qui in sala, come – pur non avendo dati ufficiali per l’Italia – la sua penetrazione in Italia è ancora limitata e minoritaria e come lo streaming non tolga spettatori ai cinema. A questo proposito faccio un esempio “esterno”. I fantastici ragazzi del Cinema America hanno offerto, come ultima proiezione a Ostia della loro estate di arene (Cervelletta, San Cosimato e Porto di Ostia, 201 proiezioni), Prima che la notte di Daniele Vicari. Visto a maggio scorso su Rai1 da quasi 4 milioni di persone, disponibile su Raiplay. Bene, c’erano 1000 persone. Molti lo avevano già visto. Erano tornati, perché quell’opera è un capolavoro e meritava una visione in sala.
E veniamo all’ultimo punto. La sacralità dell’esperienza cinematografica. Non dimentichiamoci che tanti, troppi leoni d’oro veneziani hanno letteralmente subito distribuzioni infami e in alcuni casi non hanno visto la sala neanche in cartolina. Detto questo, sarò un vecchio nostalgico, ma dirigendo anche un festival (l’Ischia Film Festival) per me lo schermo, le sedie, la visione collettiva sono qualcosa di irrinunciabile. E l’unico limite che si deve porre a Netflix è quello che Paolo Genovese ha sottolineato in un’intervista ad Arianna Finos: “Ci siamo posti il problema se considerarlo o meno per i premi, per noi è stato fondamentale sapere che sarebbe uscito in sala”. Molti protestano anche su questo: pur con l’esempio di Sulla mia pelle, che mostra come le due strategie distributive non si siano penalizzate l’una con l’altra, immaginano che invece Roma avrà una distribuzione simbolica. Difficile immaginarlo visto il successo, per esempio, della programmazione in sala de il Principe Libero, film tv Rai su Fabrizio De André. Allo stesso tempo Netflix arriverà laddove una rete di sale ormai limitata e una distribuzione che in provincia, salvo nobili eccezioni, porta solo il mainstream.
Quindi, francamente, non strappiamoci i capelli. E ai grandi festival imponiamo a Netflix di far uscire il film anche in sala, se proprio abbiamo paura. Tanto, presto, capirà (se non lo ha già fatto), che è il doppio canale a essere quello più redditizio. Industrialmente e artisticamente. Aggiorniamo le norme sulle finestre tra sala e tv, guardando all’esempio virtuoso Vision Distribution- Sky: buoni successi in sala e passaggio su Sky dopo poche settimane, con record di spettatori. E con film italiani di qualità finalmente visti da milioni di spettatori. Insomma smettiamola di continuare la guerra santa Netflix sì, Netflix no. Il futuro è, semplicemente, Netflix… anche.