La teoria svedese dell’amore è un documentario che tocca un tasto dolente di una società da sempre ritenuta perfetta: a partire dagli anni ’70, in Svezia si ripensò l’impianto sociale di modo che i cittadini potessero scegliere come creare la loro vita, senza dover sottostare alle vecchie strutture famigliari. L’individualismo è un elemento fondante della contemporaneità, ma la Svezia sembra averlo preso sul serio un po’ più degli altri, creando una società in cui metà della popolazione vive da sola e una persona su quattro muore da sola. Il documentario di Erik Gandini – regista anche di Videocracy, il doc del 2009 sull’influenza della televisione sugli italiani – racconta la società svedese in cui le donne possono slegarsi dagli uomini per avere una famiglia, e gli anziani possono slegarsi dai figli per essere curati. Per commentare le storie dei protagonisti del film e analizzare i cambiamenti nella società a causa dell’individualismo estremo, Gandini ha chiamato il sociologo Zygmunt Bauman, scomparso settimana scorsa. Abbiamo chiesto a Gandini di raccontarci quell’incontro.
Com’è nata la decisione di coinvolgere Bauman per questo documentario?
Il film cerca di ritrarre alcune idee che sono anche le sue, in particolare la tendenza all’individualismo. Si è sempre espresso in maniera molto chiara, lontana dal linguaggio accademico. Ha una capacità inusuale di saper scrivere il presente – è molto più facile fare retrospettive, ma lui aveva la capacità di ritrarre il presente. Avendo letto Amore liquido, un libro molto in linea con il film, che per il resto del tempo racconta le esperienze dei singoli, in modo non teorizzato.
È servito a trarre una conclusione da esterno.
Il resto del tempo, il film racconta le esperienze dei singoli nel momento stesso in cui le vivono. Bauman era un personaggio molto cinematografico, anche per questo l’ho scelto. L’ho contattato e sorprendentemente mi ha risposto velocemente, e mi ha dato le sue disponibilità – nonostante l’età è sempre stata una persona che viaggiava per il mondo a tenere conferenze.
Come è andato l’incontro?
Siamo andati a Leeds, dove vive da tantissimi anni, in questa casetta molto semplice, piena di libri e oggetti accumulati in una vita. Appena siamo arrivati ci ha preparato uno yogurt con le fragole, un’offerta un po’ strana, ma abbiamo poi scoperto che lo faceva con tutti i suoi ospiti. Durante l’intervista aveva una lucidità pazzesca, però si capiva che iniziava ad avere difficoltà con la propria energia. L’intervista è durata due ore, poi mi ha detto che aveva bisogno di riposare.
È un peccato che nell’edizione italiana sia stato doppiato, la sua voce originale è bellissima, ha un accento perfetto, ha un modo molto elegante di comporre le frasi. Mi ha sempre colpito questa sua semplicità nel dire le cose, e forse per questo è stato così apprezzato, perché riusciva a comunicare con un pubblico molto largo.
Come ha reagito quando gli hai raccontato il tema del documentario?
A lui interessava moltissimo la mitizzazione del concetto di indipendenza. È un idea che domina tutto l’occidente, ed era affascinato dal welfare state svedese, che si basa su questo concetto. Mi ricordo una frase che ha detto, che ho dovuto tagliare: “Purtroppo c’è un nesso fra il welfare state, che è un concetto di sinistra, e l’individualismo neo-liberista”. Nell’idea di liberazione, d’indipendenza, di emancipazione, c’è la premessa di quello che è venuto poi – individualismo, il narcisismo, l’ossessione per l’ego per cui il welfare state è stata la premessa migliore. La Svezia in questo senso è un cocktail esplosivo. In questo paese più che in altri ci si può dedicare al proprio individualismo, perché lo stato garantisce questa possibilità, l’“individualismo di stato”, che permette ai giovani di uscire subito di casa.
In che modo l’individualismo, alla base del neo-liberismo di destra, è nato dallo stato sociale, che è fortemente voluto dalle sinistre?
Lui lo vedeva come una premessa, come ciò che ha fatto fiorire il moderno individualismo. All’epoca nessuno poteva prevedere che dal welfare state si arrivasse all’individualismo neo-liberale: c’era un gran bisogno di modernità, di emancipazione, di rompere strutture tradizionali. Non era inteso per creare persone sole, disgregate, alienate. Non potevano prevedere il futuro.
E c’è anche qualche altra tematica che hai dovuto tagliare tra quelle venute fuori durante l’intervista?
Ne ricordo una in particolare: parlavamo del concetto di società perfetta. Lui mi disse: «Alla fine della mia vita posso dire di aver studiato tutte la società, e posso dire che la società perfetta non esiste. La mia definizione di società perfetta è la società che non crede mai di esserlo, che ha la modestia di mettersi sempre in discussione. È un concetto alla base del mio film: in Svezia c’è questa idea di essere un paese che ha solo da insegnare, perfetto, i più moderni… E questo è un grande rischio, è un narcisismo simile a quello di Trump, che non ammette mai di aver sbagliato. Non volersi rendere conto di ciò che non funziona significa non vedere l’alienazione delle persone.
Ha parlato di come “l’indipendenza ci ha privato della capacità di socializzare”. Questa vita confortevole in cui puoi chiuderti nel tuo appartamento, esprimerti tramite social evitando l’attrito necessario di ogni relazione, da una parte è molto attraente ma porta a disimparare come rapportarsi con chi è come noi ma soprattutto con chi è diverso da noi. E porta anche alla noia: la noia come prospettiva della vita autonoma. Ha spiegato che questo atteggiamento porta all’incapacità di avere rapporti, perché socializzare è come un muscolo: senza allenamento, si atrofizza.
Hai mai pensato di prendere le due ore di intervista girate che montarle a parte?
Ho messo su Facebook dei pezzetti del film. La parte in cui parla della felicità è il teaser scelto dalla Rai. Dice che la felicità non viene da una vita senza problemi, ma dal risolvere i problemi. Adesso quella clip a 7,5 milioni di views, che per un video di un sociologo novantenne è un ottimo segno.
Cosa ti ha detto del film quando lo ha visto?
So per via traverse che ha gradito. Ma penso che fosse una persona che non aveva interesse nel riguardarsi, nella notorietà, nonostante la sua grande voglia di comunicare – non era uno alla Berlusconi.