C’erano una volta le veline bionde e le veline more, con il loro seguito di fans divisi solo da un’inezia estetica, una sfumatura insignificante tra il tipo mediterraneo e quello scandinavo. Tanto si vinceva facile, bone erano bone, sempre. Oggi, in un’Italia sempre più intollerante, medievale e gretta, le veline sono diventate bianche o nere, un po’ come la nostra visione delle cose per quanto riguarda integrazione, pietas e elasticità mentali. Veniamo al fatto.
Succede che un po’ di tempo fa, abbastanza perché la questione venisse (ad oggi) dimenticata, erano girati in rete un po’ di audio di una misteriosa donna che si vantava con un fantomatico amico Nick delle sue prodezze sessuali con alcuni calciatori, di cui rendevano note generalità e dettagli intimi. Ai tempi la curiosità nazionalpopolare, a metà tra l’indagine scientifica e i trucchi stile “Indovina chi?” (porta gli occhiali o il cappello?), attribuì questi messaggi a Diletta Leotta. Ovviamente la diretta interessata smentì, e la cosa cadde nel dimenticatoio. E lì rimase, fino ad oggi.
Da qualche giorno, però, i messaggi sono tornati a circolare, stavolta con una distribuzione capillare e mirata via WhatsApp a giornalisti e personaggi noti, al punto che ci si chiede quale sia il senso, perché oramai i dettagli intimi dei fuoriclasse del pallone sono noti, e non più inediti né interessanti.
Perché se ne parla dunque? Perché stavolta i sospetti sull’identità della donna si sono spostati sulla velina nera, Mikaela Neaze Silva, 23enne nata a Mosca da madre afghana e padre originario dell’Angola, accusata di essere lei la responsabile della circolazione dei suddetti audio. Mikaela ha già affrontato con grande dignità i commenti razzisti alla mercè della rete subito dopo essere stata eletta come rappresentante del fenotipo mediterraneo sul secondo palco televisivo più importante di Italia dopo l’Ariston.
Ha risposto al ludibrio e alla pochezza di “sul tavolo delle veline ci vogliono le italiane” con un silenzio stampa più elegante dei cambi di abito della Hunziker a Sanremo (tra l’altro non dimentichiamo che nemmeno Michelle ha passaporto e generalità italiane), ma stavolta non ci sta.
E quindi parla, anzi piange (come ha raccontato stasera ai microfoni di Radio Capital ad un indignato Vittorio Zucconi), perché al razzismo si è aggiunta l’aggravante della calunnia, e Mikaela stavolta si difende con una denuncia contro ignoti, supportata dall’ufficio legale stesso di Striscia che minaccia provvedimenti. Si chiede, Mikaela, cosa succederebbe se le accuse venissero rivolte a ragazze “normali” senza la visibilità necessaria a fare diventare questa faccenda un caso di cronaca. Si chiede, ancora, quanti insulti, quanti soprusi, dieci, cento, mille ragazze come lei debbano sopportare tutti i giorni in silenzio, un silenzio che è più grave per chi ne è testimone che per chi lo subisce.
A noi invece stupisce la puntualità con cui, nel pieno della campagna elettorale peggiore della storia, la vicenda ritorni di attualità e come questi messaggi vengano diffusi a macchia d’olio tra esponenti della cultura e del giornalismo per cavalcare un’onda di demagogia e rancore sociale mai toccati prima. È chiaro che, per l’ennesima volta in questi giorni trafelati di cronaca, si tenti di strumentalizzare la notizia per dare alle cose un nome diverso: abbiamo già sostituito alla parola “spacciatori” quella di nigeriani, oggi sembra arrivato il tempo di dare il nome ed il volto di Mikaela alla definizione di ehm, diciamo “groupie esuberante”.
La lotta all’ultimo voto, in assenza di programmi elettorali concreti e veritieri, sta puntando sempre di più sulla nostra diffidenza, il nostro rancore e la nostra ignoranza: credevo, davvero, che i voti del Texas contassero solo in Texas, invece sta succedendo anche qui la stessa cosa dell’America. Ovvero che a contare, nello scrutinio dei voti alle prime luci dell’alba del 5 marzo, sarà la quantità, e non la qualità, dell’elettorato italiano.
Nel frattempo noi rinnoviamo la nostra solidarietà a Mikaela, la velina nera, la velina russa, la velina dignitosa: l’unico dubbio che ci resta non è quello sulla sua completa estraneità ai fatti, ma è quello sul simbolo da barrare il 4 marzo, perché al momento l’unica croce sopra è stata messa sul futuro dell’Italia.