Questa Venezia 74 è targata Napoli. Si pensi solo ad Ammore e Malavita dei (romani) Manetti Bros, sceneggiata moderna e irresistibile in concorso o alla Gatta Cenerentola in Orizzonti che ci dice che la Pixar italiana c’è e si chiama Mad Entertainment. Al piccolo film di Bruno Oliviero – tratto da una storia vera, quella dell’attore e produttore Amedeo Letizia e di suo fratello Paolo – Nato a Casal di Principe, doloroso e dolente, nella sezione “Cinema nel giardino”. E ancora Il cratere di Luzi-Bellino e Veleno di Diego Olivares, alla Settimana della Critica (che bella selezione, indipendentissima e originale), scorci opposti e ritratti forse anche complementari di realtà sconosciute a chi vive di un’immagine riflessa solo da media e pregiudizi.
In testa a questa produzione così ricca e varia, però, mettiamo L’equilibrio di Vincenzo Marra, opera lucida, lacerante, che impasta realtà e finzione in una radiografia morale, etica, spirituale di una periferia bastarda e abbandonata, da dio e dagli uomini. A sceglierlo, come Indivisibili l’anno scorso, le Giornate degli Autori, grande intuizione: il sospetto è che ci troveremo a parlare di questo lungometraggio ancora molte altre volte, in occasione dei soliti rimpianti post festival – perché non è in concorso? – e poi, speriamo, per i premi più importanti, che di sicuro merita. L’equilibrio insieme ai lavori di McDonagh, Virzì, Del Toro, al documentario su Jim Carrey, è tra le opere migliori della Mostra e a oggi il capolavoro del regista napoletano, da sempre alfiere di un cinema e di uno sguardo duro e puro sul mondo, sia nel documentario che nella finzione capace di utilizzare la macchina da presa come visione, elemento di contenuto e di senso. Non ci sono virtuosismi nella regia e nella sceneggiatura di Marra, solo sfide necessarie: dal piano sequenza che ci prende allo stomaco all’idea nello script della capra nel campo da calcetto, semplice e deflagrante. In ogni fotogramma, in ogni parola c’è una decisione, una scelta. Precisa, decisa, originale.
L’equilibrio racconta, pur senza nominarla, Caivano, una Scampia dove non è arrivata la serialità televisiva, in cui droga, pedofilia, violenza e controllo (anti)sociale sono le armi di distruzione di massa che uccidono la speranza delle nuove generazioni, annichilisce uomini e donne, distrugge ogni tipo di rete e solidarietà umana, fatta esclusa quella criminale.
Il racconto è quello intimo e collettivo di un prete, Don Giuseppe (Mimmo Borrelli) in crisi che vuole tornare nella sua terra per ritrovare la fede e forse se stesso. Va a sostituire un mito, l’unico baluardo di legalità e positività, Don Antonio (Roberto Del Gaudio), che usa il pulpito per comizi sulla terra dei fuochi. Marra ci porta dentro questa storia, questa Passione, di due uomini. “Per me non è un eroe, ma un seminatore di dubbi” dice il cineasta, parlando di Don Giuseppe, che si scaglia contro l’omertà non piegandosi alla paura”. Che pur prova, la sentiamo addosso in ogni sguardo, cedimento fisico, esitazione: la forza del film, infatti, non è solo la sua cadenza narrativa, che porta a svelare ciò che è sepolto sotto l’apparente bellezza di un cammino spirituale e politico approvato da tutti, ma anche la continua dialettica tra corpo e anima di Don Giuseppe, martoriati entrambi, per il suo travaglio interiore e la sua battaglia esteriore. È il dialogo tra l’inferno terreno e il paradiso ultraterreno, tra il realismo peloso di un carismatico e mefistofelico Don Antonio (la sua ultima battuta nel film è da boss mafioso) e l’idealismo tradito di un missionario che non ha saputo redimere la sua terra. Borrelli e Del Gaudio sono capaci di tener testa alla sfida che pone loro il regista, con bravura, esperienza e adesione totale ai perdonaggi.
Vincenzo Marra ci regala la sorpresa del festival, il film che dovevamo vedere da troppo tempo
La grammatica cinematografica alta (e altra rispetto al “solito” cinema italiana) la vedi nel percorso delle immagini, nella fotografia di Laudadio, nei visi degli attori (quanto parlano quelli di Paolo Sassanelli e Astrid Meloni, ad esempio, nella loro diversità), nelle parole. Quando il giovane Saverio, un bravissimo Giuseppe D’Ambrosio, apre gli occhi al protagonista, ti squassano dentro. “Quelli delle cosche dei rifiuti sono tutti morti e in carcere, quelli della droga sono tutti fuori, ha capito adesso?” gli dice con rabbia rassegnata e esasperata, spiegandogli il silenzio vigliacco di chi dovrebbe proteggere ciò che è più innocente e sacro. Marra fa un film di alto valore artistico e non rinuncia a quello politico e religioso, perché Giuseppe è nu Cristo ’n croce che forse lavora per quell’unica frase che gli dirà, alla fine, quel chierichetto che lo metteva sempre in guardia e non perdona, non si piega, perché i suoi carnefici, quelli silenziosi e quelli armati, sanno tutti, benissimo, quello che fanno.
La Napoli che racconta Marra – come a loro modo quella dei Manetti e di Rak, Cappiello, Guarnieri e Sansone – è amata e difesa dall’autore proprio perché è spogliata di ipocrisie, pregiudizi e assoluzioni. È una Napoli crocifissa, quella di Marra, dai chiodi di un Sistema di potere che contagia tutti, Chiesa compresa. Un virus che passa per siringhe e teste basse, convenienza e vigliaccheria. Quei chiodi vengono battuti da cittadini arresi, che riempiono le messe sbagliate. L’equilibrio è l’apice di un percorso ventennale di un regista che ha saputo essere internazionale raccontando spesso la sua città, meravigliosa e terribile, quel Paradiso abitato da diavoli – ma non nell’accezione denigratoria di Croce – che ha degli strenui guardiani come lui, impegnati con la bellezza e l’arte a raccontarla e così a non rinunciare a combattere per lei e riscattarla. Il dolore del finale non è così una sconfitta, ma un modo per impedire a tutti noi di voltarci dall’altra parte: Marra racconta ciò che accade in un girone dantesco in cui a essere puniti sono i bambini, i giovani coraggiosi. Non fa i nomi, perché il suo obiettivo è più importante: inchiodarci, tutti, alle nostre responsabilità. Lui guarda quando noi ci voltiamo, lui parla quando noi stiamo zitti, lui gira film scomodi e potenti quando altri, invece, cercano il folklore della morte negata, dell’antieroe iconico, del romanticismo nero. Che devono esserci, ma non soli e unici specchi di ciò che siamo.
Vincenzo Marra, come fece con un film diverso ma figlio della stessa Napoli che non si nasconde, Edoardo De Angelis, ci regala la sorpresa del festival, il film che dovevamo vedere da troppo tempo, quell’opera che dal basso deve e può trovare la strada di riconoscimenti e pubblico che merita. Per noi, L’equilibrio, è il film più bello di questa 74ima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e allora, almeno qui, gli consegnamo il nostro Leone d’Oro. E invitiamo a sottolineare come un regista straordinario, da almeno due decenni, riesca a lavorare con libertà creativa, politica e cinematografica grazie a un produttore come Gianluca Arcopinto. Uno che le omertà, i silenzi, le connivenze, il Potere non li ha mai blanditi. E paga da anni, per questo: ma senza di lui queste voci non le sentiremmo. Questi film non li vedremmo.