Sorrentino, che ha sempre giocato d’azzardo con l’immaginario – spesso bleffando e mostrando il magico anche laddove non c’è, come ne La Grande Bellezza– questa volta si accontenta di prestigiare con la morale degli spettatori al banco da strada, carta vince (Loro sono innocenti, agnelli sacrificali) e carta perde (Loro sono colpevoli, pecore di un gregge senza redenzione), anche quando è lo stesso regista a dichiarare di barare e di ingannarci: “Loro è un racconto di finzione, in costume, che narra di fatti verosimili o inventati, in Italia, tra il 2006 e il 2010” scrive nelle note di regia e in un veloce (quindi illeggibile) cartello a inizio film, come a voler giustificare tutta quella indulgenza cafonal verso papponi cocainomani, olgettine senza mutande e politici arrapati.
Ci vuol mettere in guardia che è tutta una finzione, ma è proprio lì che casca fragorosamente, perdendo – per tornare alla metafora delle carte – il banco: Sorrentino mette in scena un berlusconismo in minore, con un immaginario più scontato e retorico dell’originale: le foto di Silvio a Villa Certosa in Sardegna, pubblicate dieci anni fa da Chi, sono più potenti di quella specie di puntata di Mtv On the Beach a Ibiza che è il party in MDMA a bordo piscina con Scamarcio e Kasia Smutniak; l’allegoria scontatissima del camion della monnezza, che prende fuoco tra i reperti dell’Antica Roma mentre il gruppo di girls si reca a una cena elegante, è nulla di fronte alla statuetta del Duomo di Milano che colpì in fronte Silvio nel 2009; il montaggio di farfalline, tette e duck faces assomiglia più a uno di quei videoclip, per nerd punk rock zeppi di ormoni, di Offspring e Blink 182 – o agli Spring breakers di Harmony Korine – che a un festino bunga bunga.
Per non parlare dei dialoghi di sceneggiatura: le intercettazioni di Tarantini e soci erano letteratura pulp (infatti a quei tempi La Repubblica che le pubblicava era un best seller) in confronto a Scamarcio (che, va detto, come interprete è bravissimo, unica nota positiva del film) che tesse l’elogio della “gioia del cazzo”/”dolce vita”; anche quando entra in scena il Silvio di Servillo, le sue perle meme in stile “Le più belle frasi di Osho” (beccatevi i dialoghi da Sandra e Raimondo fra Berlusconi e la Lario che parlano di Saramago e Rai Tre) sono la versione annacquata delle barzellette originali e della cruda grevità da Bagaglino.
Tornando agli agnelli sacrificali e al gregge di pecore di cui si parlava all’inizio, il sorrentinismo in questo Loro 1 si fa quasi parodia di se stesso presentandoci ogni tipo di bestia fuori contesto, tranne forse l’enorme ratto romano che, più che una metafora, pare una banale fake news. Sicuramente del regista rimane il tocco buono, la cura per il montaggio, l’originalità sia nel suono in presa diretta che nella colonna sonora, e il talento per le scene corali, anche se c’è sempre la sensazione che ogni sequenza venga dopata artificialmente, pimpata come le macchine in quei programmi di Mtv anni Novanta (l’immaginario Mtv è molto presente in questo film).
Alla fine resta la sensazione, per usare un po’ di slang alla Bagaglino, che Sorrentino ci abbia preso per il culo, facendo un film su Berlusconi – e sul potere e la fica che gli girava intorno – ma dichiarando la finzione (forse, come si diceva, perché l’immaginario di quel mondo in quel periodo è più forte di quello del film) e mostrando alla spettatore ciò che non è più né sogno, né cinema, neppure pornografia, ma lunghe Instagram Stories che il nostro software sociopolitico non ha mai cancellato.
Usciti dalla sala ci rimane attaccato – sudaticcio e appiccicoso come il sesso di Youporn – un berlusconismo enfatizzato, bigger than life, che Gué Pequeno avrebbe potuto tranquillamente liquidare in tre rime, e che qui diventa addirittura un film in due parti, dove l’attesa per il secondo episodio svanisce al quarto d’ora del primo.