Ho questa foto di pura gioia: un concerto degli Afterhours da qualche parte a Milano, un secolo fa. Sotto il palco qualcuno chiede Ossigeno e Manuel Agnelli dice che no, Ossigeno non se la ricordano neanche loro. Forse non gli andava di cambiare la scaletta, forse davvero non la facevano da tanto, non lo so. Ma io mi stringo nelle spalle e sorrido. Perché io la so tutta a memoria, Ossigeno, mica come tutti ‘sti fighetti che sono arrivati solo dopo Hai paura del buio.
Oltre a essere una vecchia canzone degli Afterhours, Ossigeno è anche un nuovo programma (Rai3, giovedì, seconda serata) in cui Manuel Agnelli fa cose, vede gente, parla di musica e spiega la vita. E per quanto mi riguarda, è anche la primissima volta che lo vedo in tv. Mai, neanche per caso, neanche per sbaglio, l’ho visto a X Factor. Sono cresciuta con Germi in cuffia, in una sera di sconforto adolescenziale ho vergato sulla parete della mia cameretta “nel sogno che mi danno trovo la verità ma prima di parlare muore suicida” (se i miei non hanno fatto imbiancare, l’inclito verso dev’essere ancora lì) e conservo I racconti del tubetto in edizione Ultrasuoni: quando nel 2016 ho letto “Manuel Agnelli” e “talent show” nello stesso titolo beh, qualche perplessità l’ho avuta. Ma non ho gridato al tradimento, affatto: ho soltanto evitato di guardare una cosa che probabilmente non mi sarebbe piaciuta. Ecco perché quando Manuel Agnelli compare sullo schermo io non sono preparata.
C’è qualcosa di straniante nel vederlo incedere in questo studio tutto tappeti, luci al neon e vecchie sedute chesterfield – il club indie come dovrebbe essere, la fin troppo perfetta nicchia ecologica del rocker – con il cerone in faccia e una perniciosissima sfumatura mogano nei capelli. Nei cinquanta minuti successivi, lo straniamento persiste: nonostante io profonda tutto il mio impegno per trovare credibile un Santamaria che fa Gouge Away dei Pixies, ignorare la smodata concentrazione di giubbetti di pelle in studio, perdonare la scelta scellerata di doppiare anziché sottotitolare l’intervista a Joan as Police Woman e sorvolare sul fatto che gli autori diano per scontato che noialtri si ignori bellamente il significato di “seminale”; e nonostante – per contro – Manuel riesca a regalare momenti di autentica bellezza ogni volta che ha un microfono davanti (la sua versione di State Trooper di Springsteen, per dire, è formidabile) e fare simpatia quando lascia trapelare un certo malcelato sollievo all’ultima domanda di ogni intervista o un guizzo di compiaciuta ironia nel tradurre “shitty public” a un pubblico così shitty da necessitare traduzione, ecco, nonostante tutto questo la prima puntata di Ossigeno mi risulta paradossalmente claustrofobica.
Il perché lo capisco quando Paolo Giordano parla dei Måneskin definendoli “uno schiaffo di gioventù che mi ha fatto sentire vecchio”. D’un tratto, l’epifania: Ossigeno mi sta facendo esattamente lo stesso effetto senza neanche bisogno dello schiaffo di gioventù. Perché il mio problema non è il confronto con il diverso, è quello con il simile. Se guardo i Maneskin che hanno la metà dei miei anni neanche mi pongo il problema, ma se guardo questi due, Agnelli e Giordano, il dubbio mi viene: sono anch’io così? Così vecchia, intendo? La risposta, ovviamente, è sì: sono vecchia abbastanza da essere stata giovane quando Agnelli (era l’anno 1997) cantava Sui giovani d’oggi ci scatarro su ed è quindi nella natura delle cose che io, come gli altri giovani su cui il nostro severamente scatarrava, sia invecchiata a mia volta e mi senta ora pronta a scatarrare sulle nuove generazioni.
Ed è qui che mi coglie la seconda rivelazione della serata: vuoi vedere che tutta questa storia della trap, allora… Agguanto il telefono e chiamo il mio informatore segreto dal pianeta post-millennial: mio nipote, che ha diciassette anni come i Måneskin ma non li ascolta perché ascolta la trap. “Senti un po’ – gli chiedo – ma se la mia generazione ha gridato allo scandalo quando Sfera è diventato disco di platino in una settimana, con tutte le giaculatorie di rito sulla vostra che è musica di merda e noi che invece alla vostra età… ecco, non sarà solo che siamo troppo vecchi?”. Certo che sì, mi risponde smagato. E mi spiega che se sei nato prima del 1990 e non riesci a pronunciare Sfera Ebbasta senza sghignazzare, la trap non è che ti piace o non ti piace: semplicemente non è per te. Se invece vuoi fare quello che la capisce, aggiunge, assumerai inevitabilmente il tono paternalistico e condiscendente del vecchio che si intende delle cose dei giovani, un atteggiamento che per brevità chiameremo Red Ronnie attitude.
Per me potremmo anche chiudere così, ma lui, il nipote, sgancia un’altra bomba: “Comunque quando Sfera dice che la trap è il nuovo rock non parla di musica ma di atteggiamento: le icone rock hanno sempre incarnato la provocazione e la rottura con i valori dominanti, una roba che gli adulti si mettevano le mani nei capelli. Ecco, oggi questa provocazione chi me la dovrebbe dare? Gazzelle? Calcutta? Non so, Tommaso Paradiso?”. Sbam. Gli risparmio il pippone su come l’indie abbia inesorabilmente virato al pop e mi limito a convenire sul dato di fatto: un fidanzato come Sfera è il terrore di qualsiasi genitore, Calcutta invece piace alle mamme e Tommaso Paradiso fianco alle nonne.
È pensando a lui, a Tommaso Paradiso, che vengo folgorata da un dubbio. Gugolo ed è come pensavo: quest’uomo che solo oggi ho sentito cantare “dobbiamo fare adesso subito qua una foto che spacca”, incredibilmente ha la mia età (se volete gugolate, oh: non si chiede l’età a una signora, men che meno a Tommaso Paradiso). E allora ecco l’illuminazione totale, il Nirvana (ho detto Nirvana?), la consapevolezza definitiva che chiude questa tormentosa serata: meglio sentirsi vecchi anzitempo che giovani fuori tempo massimo. Quindi grazie Manuel, davvero: anche a ‘sto giro è stata una grande lezione di vita.