Mezzanotte. Piazza Grande ha già proiettato un film. Ma sotto i portici c’è una piccola folla che aspetta l’occasione della vita: (ri)vedere Il cacciatore di Michael Cimino, con la miglior proiezione immaginabile su questo pianeta. Sullo schermo più bello che mente cinefila possa sognare.
Si finirà alle tre del mattino, ma poco importa. Ci si guarda e anche se non ci si conosce, ci si scambia tutti un sorriso. Siamo tanti e facciamo parte della stessa famiglia, gli orfani di uno dei più grandi geni che la Settima Arte abbia espresso (e nel suo caso maltrattato).
Comincia. Lo avrò visto una decina di volte, so a memoria scene intere e battute, persino più del ritornello di I love you baby che De Niro, Walken, Savage, Cazale e soci cantano nel loro bar, in una scena gioiosamente struggente. In cuor mio penso «rimango un paio d’ore», poi a letto. Arriverò alla fine senza accorgermene, con la gola stretta come una morsa sull’ultima scena di Nick. Speravo, con l’infantile ingenuità di chi ama il cinema, un personaggio e un film, che cambiasse, davanti ai miei occhi, l’ineluttabile. Ciò che conoscevo ma mi pugnala ogni volta.
Un po’ come quando rivedi i rigori di Donadoni o di Baggio e Baresi. E ti auguri che in quella replica, li segnino.
Ha piovuto, durante la proiezione. Una di quelle piogge scroscianti, di quelle locarnesi. Ero a maniche corte, ma l’acqua mi scivolava addosso. Gli occhi non si staccavano dallo schermo, il culo dalla poltrona. Non per eroismo, ma perché… provateci voi. Impossibile con quel De Niro davanti, con Meryl Streep a farmi innamorare, con Savage da curare e il Vietnam a gettarmi addosso il suo napalm. Non quello vero, ma il terrore, l’annichilimento di anime speciali.
E quando stavo per affogare, ho scelto il tavolino sotto il gazebo di un bar. Ma solo per bermi una birra mentre lo faceva Bob. Anzi, con Bob. Per capire, mentre lo guardavo e mi stupivo di nuovo della perfezione di quel capolavoro, che avrei dato un braccio per poter recensire quel film appena uscito, per sentire il brivido quasi orgasmico di chi sa che è di fronte a un capolavoro e vuole urlarlo al mondo. Scriverlo sui giornali, sui muri, tatuarselo addosso. Ma Locarno mi ha permesso di vederlo in sala, anzi nella sala più bella, di scoprire altri particolari mai notati prima.
E non lo ringrazierò mai abbastanza il Festival del film Locarno, per questo.
Ma non bastava. Quell’uomo, classe 1939 ma la pelle di un bambino – sembra un incrocio tra Micheal Jackson, ma bianco, e Yoko Ono: è chiaro che il suo chirurgo plastico sia un iconoclasta – aveva ancora un asso nella manica. Il Forum, l’incontro con il pubblico. Una performance totale. E non vi diciamo nulla, perché la sporcheremmo con la nostra cronaca (la trovate qui sotto). Ok, vi diciamo una sola frase. «Girare nella Monument Valley dopo John Ford mi ha fatto sentire come profanassi un luogo sacro». Più di due ore, quasi 70 minuti in più del previsto. Un viaggio nel cinema, quello vero, coraggioso, classico, totale. Perché lui è così: o tutto (Il cacciatore e I cancelli del cielo girati di seguito, con soli 5 giorni di pausa: 400 minuti di talento purissimo per 1000 giorni di set) o niente (da vent’anni non abbiamo un suo film e fa male solo a scriverlo). E alla fine corre da Ettore, per parlarci, farsi una foto, regalargli ciò che tutti noi avremmo voluto. Ettore Calvello, una mente brillantissima, che lui ha intuito subito. Perchè la sensibilità è un dono: umano, artistico, culturale.
Vorrei dirvi tanto altro. Vorrei farvi capire perchè ogni anno vado ai festival, mangiando poco e male, spendendo molto denaro per case sempre troppo piccole, vendendo meno articoli di quelli che mi servono a coprire le spese. Perché ieri e oggi dovevate esserci, quello che abbiamo visto è un miracolo, un’epifania, un racconto straordinario. Di un uomo solo, che sa far cinema anche se ha smesso di fare film. Vorrei raccontarvi tanto altro, ma non posso. Sta iniziando I cancelli del cielo, al Rialto. E non me lo perderei per nulla al mondo.