Nel 1977 John E. Douglas, istruttore presso l’Unità di Analisi Comportamentale dell’FBI, ebbe un’intuizione geniale: piuttosto che limitarsi ad insegnare ai poliziotti come esaminare e studiare i crimini, non sarebbe stato meglio andare a parlare direttamente con chi, quei reati, li aveva commessi? Era un’epoca in cui non esistevano ancora i profiler e termini come serial killer non avevano alcun significato.
Nonostante un iniziale scetticismo all’interno del dipartimento, Douglas iniziò ad intervistare, nei carceri di massima sicurezza americani, alcuni dei criminali più noti e violenti degli Stati Uniti, accompagnato dal collega Robert K. Ressler. La lista è lunghissima: Charles Manson, Edmund Kemper, Ted Bundy, Sara Jane Moore. Come ragiona un assassino seriale e quali sono i meccanismi che lo spingono a compiere un omicidio?
Dopo il ritiro dall’FBI, dopo 25 anni di carriera, Douglas decise di mettere su carta i migliaia di casi a cui aveva lavorato. Il risultato è Mindhunter: Inside FBI’s Elite Serial Crime Unit, scritto a quattro mani con Mark Olshaker e pubblicato nel 1994. Quello stesso libro è oggi alla base dell’omonima serie targata Netflix, creata da Joe Penhall e e co-prodotta da David Fincher e Charlize Theron.
Dieci episodi ricchi di suspense, della durata di un’ora ciascuno (alcuni sono diretti dallo stesso Fincher), disponibili sulla piattaforma digitale a partire da oggi. Protagonisti della storia sono gli agenti dell’FBI Holden Ford (Jonathan Groff, già visto nelle serie tv Glee e Looking) e Bill Tench (Holt McCallany), impegnati a capire come funzionano le menti criminali. I due personaggi sono vagamente ispirati ai veri John Douglas e Robert Ressler.
«Non ho conosciuto Douglas di persona, ma ci siamo scritti numerose email» ci racconta il 32enne Groff, seduto nella suite di un hotel di Londra. «Prima d’ora non avevo mai letto un libro sulla psicologia criminale e ammetto di esserne rimasto molto colpito. Tutto quello che vedrete in Mindhunter è basato su fatti reali. L’unica libertà creativa che si sono presi gli sceneggiatori riguarda le vite private dei due agenti. Insomma, non facciamo l’imitazione di nessuno».
Quando ha conosciuto Fincher, il regista gli ha fatto capire l’approccio più utile per il suo personaggio. «David mi ha detto: “Jonathan, sei una persona molto carina e accogliente, ma Holden, almeno all’inizio della serie, non possiede alcuna di queste qualità”. Lui non sa come sedurre gli interlocutori, non fa parte del suo carattere. Io, al contrario, ho un desiderio innato di piacere» ammette con una risata. «Nella vita sorrido in continuazione, mentre nella serie sono sempre serissimo. La prima volta che mi sono rivisto ho faticato a riconoscermi».
Interviene il 54enne McCallany, che aveva già lavorato con Fincher agli inizi della carriera: «Mi diede un ruolo in Alien 3, il suo primo film. Nel 1992 David era già considerato una specie di ragazzo prodigio, incredibilmente in gamba. Non so perché, all’epoca, abbia scelto proprio me, visto che non avevo nulla di rilevante sul curriculum. Lavorai di nuovo con lui in Fight Club, uno dei film di cui vado più fiero. Il fatto che ora mi abbia affidato un ruolo da protagonista in Mindhunter è particolarmente gratificante: è stato un po’ come ottenere una promozione».
La serie ha delle atmosfere noir che ricordano quelle di altri due classici del cineasta americano: Se7en e Zodiac. «Per David era fondamentale che raccontassimo la storia nel modo più autentico possibile. Non mostriamo i killer nel classico modo hollywoodiano, diciamo. Nessuno è particolarmente affascinante o arguto e la ragione è semplice: la maggior parte di quegli psicopatici non era così. Si tratta soprattutto di uomini depravati, tristi, sadici e tormentati» prosegue McCallany.
I primi due episodi si concentrano su Edmund Kemper: dopo aver ucciso, nell’arco di un decennio, i suoi nonni e numerose donne, compiendo anche atti di cannibalismo, prima di essere arrestato uccise anche sua madre e fece sesso con il cadavere. Sta scontando ancora oggi l’ergastolo presso la prigione di stato di Vacaville, in California. «Kemper era un ragazzo affabile e intelligente, ma tutti gli altri non gli somigliavano. I killer hanno tutti personalità molto diverse» ci spiega Groff.
Il suo personaggio è quello che vedremo trascorrere più ore in carcere, faccia a faccia con i criminali: «I dialoghi sono basati su veri processi, interviste e dichiarazioni. Abbiamo ricostruito fedelmente ciò che succedeva dietro le sbarre». Secondo l’attore ci sono delle somiglianze tra il suo mestiere e quello di Holden Ford. «Una delle grandi domande della serie è: si può fingere empatia per ottenere informazioni e capire la persona che abbiamo davanti? Ogni volta che devo interpretare un personaggio cerco di relazionarmi con lui: anche se ha fatto delle cose terribili, provo a trovare un modo per capire chi è e quali sono le sue ragioni. Ho passato tutta la prima stagione a “intervistare” i criminali, mentre ora siete voi giornalisti a intervistare me. È interessante vedere come si sta dall’altro lato».
Tu e Holt vi somigliate? «In realtà siamo opposti, ma condividiamo lo stesso tipo di humor. Siamo un po’ come Felix e Oscar, i protagonisti de La strana coppia interpretati da Jack Lemmon e Walter Matthau». A quanto pare Fincher ha in mente di sviluppare la trama nel corso di cinque stagioni, che saranno ambientate tra il 1979 e il 1999. Entrambi gli attori sembrano sopresi: «Davvero? Non ne sappiamo niente. A volte, quando firmi un contratto per entrare nel cast di una serie, accetti di farne parte per cinque o anche sette anni, è la norma. Sarebbe un onore continuare» risponde Groff.
McCallany è ottimista, pensa che il successo dello show sia quasi garantito: «Al timone c’è David Fincher, che, quando si mette in testa una cosa, la porta a termine con il massimo dei risultati. È un innovatore, ha la stoffa dei grandi leader. Mindhunter è una serie così complessa e interessante che accetterei di farne parte anche per i prossimi 10 anni. Anzi, se mi portate il contratto, firmo immediatamente».