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MTV e l’esercito del pop

Dai primi MTV Day a Bologna, con i Lùnapop e gli altri, al successo dei veejay. E poi i videoclip in rotazione, il “gentismo”e gli anglicismi. Con il suo flusso di musica e immagini, il canale, sbarcato 20 anni fa in italia, ha rivoluzionato il rapporto di una generazione con il piccolo schermo

Il primo giorno di Mtv Italia non me lo ricordo. Non ricordo neppure il concerto degli U2 durante il primo Mtv Day, quando Bono Vox pronunciò le fatidiche parole “Welcome Mtv” Così sta scritto. Fu di notte, in realtà. A mezzanotte del 31 agosto 1997 andò in onda l’Unplugged dei Nirvana, girato a New York quasi quattro anni prima, e noi, che eravamo già grandicelli e molto appassionati, sapevamo a memoria il disco. Potrei sbagliarmi, ma ho come l’impressione che non avessimo visto mai lo show per intero. Il giorno che morì Kurt Cobain il canale musicale Videomusic aveva mandato il concerto registrato al Palaghiaccio di Marino, in provincia di Roma, nel marzo 1994, che fu uno degli ultimi concerti della band di Seattle. Registrato male, con una sola videocamera analogica, non saprei da chi (guardatelo, sta su YouTube). In quegli stessi giorni c’era stata l’ospitata ad Avanzi, su Raitre.

Avremmo recuperato. Kurt Cobain, al quale non mancava il senso dello spettacolo, aveva anticipato la sua veglia funebre su Mtv, cantando canzoni sulla morte, cover di Bowie o Lead Belly, tra gigli e candele nere accese. Indossava un cardigan beige di “acrilico, mohair e Lycra con cinque bottoni – uno assente – e due tasche, bruciato e scolorito vicino alla tasca sinistra”. Cito dalla descrizione della casa d’aste che due anni fa lo ha piazzato a 140mila dollari. È importante che il rito fosse stato officiato proprio su Mtv, i cui famosi producer, per quel che sappiamo, non gradirono né l’atmosfera né la scaletta proposta da Cobain, per quella che diventò poi una delle produzioni più struggenti e famose del canale.

Questo per dire che, quando Mtv Italia aprì i battenti, la mitologia del canale americano con la grande M era già una lunga lista di cose. Sapevamo tutto. I videoclip, i veejay, il logo, Video Killed the Radio Star. Avevamo già studiato le implicazioni estetiche e narrative di un palinsesto a flusso continuo, riempito di cortometraggi non narrativi, che ruotavano secondo uno schema preciso. Valutate le eventuali applicazioni sul mondo del cinema e della letteratura. Avevamo imparato dai romanzi di Bret Easton Ellis che in tutte le stanze dei ragazzi americani c’era sempre una tv con Mtv accesa, giorno e notte. Da Meno di zero, prima opera dello scrittore americano: “Mi accesi una sigaretta, girai su Mtv e tolsi il volume”. Ancora: “È sul suo letto con un accappatoio bagnato e guarda Mtv. È scuro nella stanza, l’unica luce è quella delle immagini in bianco e nero che arrivano dalla televisione”. Sapevamo che Andy Warhol aveva in casa un tv sempre accesa fin dagli anni ’50. Mario Schifano, uno che usciva poco di casa, a un certo punto aveva più televisori accesi di quanti canali si potessero effettivamente vedere, e li fotografava.

Consideravamo Mtv come una grande opera d’arte pop. La conseguenza era che, fino al 1993-94, gli anni della discesa in campo di Berlusconi, tutta la televisione italiana te la potevi guardare come un’opera d’arte pop. Qualsiasi cosa andasse in onda con il volume a zero: le televendite di notte, le dirette di una qualche guerra lontana e “virtuale”, i videoclip, i programmi, i film. Berlusconi rovinò per sempre l’incantesimo, precipitò tutto in una parodia orwelliana/felliniana della tv. Sia detto senza nessuna polemica politica. È andata così, e basta. La tecnologia rovesciò il resto abbastanza in fretta: ci trovammo coi telefonini, la pay-tv, il computer e Internet, prima ancora di capire bene che cosa farci. Soprattutto: senza immaginare che cosa ci avrebbero fatto. In ogni caso: nel 1997 la televisione era già roba vecchia. Dell’altro secolo.

L’idea che la televisione potesse avere seriamente a che fare con la musica quasi faceva sorridere. E nemmeno potevamo immaginare che un giorno qualcuno avrebbe preso seriamente X Factor. Più di 10 anni prima si erano scoperti i videoclip su Italia Uno di notte. Visto il Live Aid su Videomusic. Sempre su Videomusic uno show inglese pazzesco come The Tube, prodotto da Channel 4, che era stato la madre di tutti i programmi “dove si suona dal vivo”, copiati poi da Rai e da Mediaset. Ma, parlando seriamente di musica, i “canali” della fruizione erano stati piuttosto le radio, i negozi di dischi, le riviste mensili, italiane e inglesi, i concerti, i club. La televisione veniva per ultima. Troppo “popular”, mai abbastanza di nicchia. L’economia del videoclip – che in inglese si chiama più correttamente promo, perché è pagato da una casa discografica – era rivalutabile soltanto come agente di sprovincializzazione e globalizzazione. Auspicabile. Anche perché, nel caso della televisione italiana, c’era l’ombra della politica a bloccare inesorabilmente il sistema, dopo i primi 10 anni folli e selvaggi.

Dunque in quella metà anni ’90 Videomusic era entrata a far parte del terzo polo di Vittorio Cecchi Gori, assieme a Telemontecarlo. Anzi, nel 1996 il marchio era scomparso, sostituito da Tmc2, che faceva tv per un target giovane, non solamente musica, povera nella produzione ed esticamente discutibile. Canal+, gruppo francese, aveva rilevato da Mediaset il controllo dei tre canali di pay-tv Telepiù (ricevibili in chiaro e attraverso un decoder). TELE+3 – nato con l’ambizione di essere un canale culturale – trasmise per qualche tempo i programmi di Mtv Europe, fino alla sua chiusura nell’estate del 1997, quando entrò in vigore la legge Maccanico. Con il governo di centrosinistra sembravano arrivati i tempi dell’antitrust e delle grandi manovre nella tv italiana. Alla fine dei conti si rivelarono piccole manovre, perché riguardarono soprattutto i canali periferici, essendo la galassia Rai-Mediaset intoccabile, dopo la discesa in campo di Berlusconi.
Di quelle manovre faceva parte il fatto che Mtv Italia occupasse le frequenze di Rete A, legittimamente assegnate all’editore Peruzzo, che le teneva dal 1982, e da lui girate all’americana Viacom per gran parte della giornata. Della galassia di televisioni minori che avevano colonizzato il subconscio di milioni di telespettatori grandi e piccini, Rete A era la maggiore. Una caposcuola, il cui palinsesto si può ancora studiare nei libri di storia della televisione: Guido Angeli e il mobilificio Aiazzone, Wanna Marchi e le sue alghe, Maurizia Paradiso e le videocassette porno, per non parlare del telegiornale di Emilio Fede e della telenovela brasiliana Anche i ricchi piangono. Una tv del tutto stracult, che lasciò il passo a un altro genere di culto globale: Mtv, appunto. Mtv della quale sapevamo tutto, ma di cui non avevamo ancora visto niente.

Televisivamente parlando il 1997 fu l’anno di Anima Mia. Il programma di Fazio si rivolgeva a trentenni e quarantenni, che vivevano la crisi piena del modello televisivo italiano e il suo improvviso invecchiamento. Il sistema era stato bambino negli anni ’70, selvaggio e ultraprovinciale negli ’80. Negli anni ’90, poi, la sua forza animale si era infranta contro il tentativo di arruolamento in blocco nella politica. Non restavano che la ridicola nostalgia per Mike Bongiorno (che infatti quell’anno presentò il Festival di Sanremo), i Cugini di Campagna e Pippo l’Ippopotamo. Internet avrebbe cancellato tutto questo.
Invece, la forza del marchio Mtv fu quella di riformattare totalmente il rapporto con la tv di una generazione di ragazzini di casa nostra, che sapevano poco o niente di televendite, telenovela, porno di notte. Scrivo senza avere dati e affidandomi alla memoria: il direttore di allora, Antonio Campo dall’Orto, parlava di un target compreso tra i 15 e i 35 anni, ma senz’altro esagerava per eccesso.

C’era un programma di Mtv Italia che si chiamava Cercasi VJ. Mtv non è stata la prima televisione a trasformare il casting in un proprio programma, a utilizzare la gente in strada come pubblico e come scenografia (tipo il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo). Bisognerebbe dare la palma in questa speciale classifica al Karaoke di Fiorello, alfiere del primo “gentismo”. Prima del Grande Fratello, molto prima di X Factor.
I programmi di sconosciuti diventati famosi si diffondono a macchia d’olio in quel periodo. Pensate a Non è la Rai. The Real World, il primo reality in assoluto visto in televisione, è un format Mtv del 1992. Fu tradotto in Italia con Davvero, prodotto a Bologna e mandato in onda su Rai Due con scarso successo.

Tutti volevano essere veejay. I veejay parlavano un linguaggio semplice e entusiasta. Fin troppo, magari. Mai sbracato. Erano troppo cool (ci provavano, almeno) per le cialtronate provinciali sulle quali si era costruito fin lì il linguaggio delle radio, e da cui sarebbe venuto il linguaggio della tv generalista degli anni a venire. Erano giovanissimi e carini.
Diventarono piccole star in brevissimo tempo, adorati dai ragazzini e dalle ragazzine, che vivevano dentro questo ecosistema televisivo, dove si faceva tutto quanto in casa. E però la casa aveva le dimensioni di una delle più grandi multinazionali della comunicazione al mondo. Troppo poco adulti allora, poco spendibili ancor oggi. Vent’anni dopo.
La tv global insomma era un tv di nicchia. Si faceva a Milano, proprio come Mediaset, ma aveva 10 anni di meno. Almeno metà di quelli che l’avevano aperta avevano imparato il mestiere a Mtv Europe, che invece stava a Londra. Qualcuno parlava un curioso mix di italiano e inglese. La terminologia tecnica era inglese: “talent”, “cut to”, “transition”, “recap”. Capitava di sentire parlare inglese il regista ai cameramen. Non c’erano autori, ma producer. Semmai writer. Intern. Stylist. Un gruppo di stylist decisamente no-gender e abbastanza no-logo, molto internazionali comunque, ai quali stava decisamente stretta la Milano della moda di quegli anni.

Il look del canale era per tre quarti anglosassone – e questa era la cosa che notavi subito quando cambiavi canale – e un poco italiano. I grafici erano dei nerd pazzeschi. Chi ci lavorava era comunque un “creativo”, si faceva le cannette, passava le serate nei centri sociali, parlava bene inglese, comunicava via mail, quando la cosa era ancora abbastanza rara, faceva parte del nuovo precariato cognitivo, che la new economy cominciava a spostare su e giù per l’Italia su aerei e pendolini.
Il riferimento alla new economy non è casuale. Se a qualcosa si possono accostare i primi due-tre anni di Mtv Italia è proprio a quell’euforia diffusa da gratta e vinci che attraversava il Paese, che durò pochissimo e non produsse quasi niente. Si scontrò invece rovinosamente con la cialtronaggine della politica, le conseguenze del G8 di Genova, l’11 settembre e il mondo che cambiava e cominciava a chiudersi.

Il senso finale della cosa lo avremmo letto in No logo, il libro scritto nel 2000 dalla canadese Naomi Klein: “Il genio originale di Mtv è che gli spettatori non guardano singoli programmi, guardano Mtv” e ancora “Mtv nel 1998 è arrivata a 273,5 milioni di case nel mondo”, “Mtv è stata tra le maggiori utilizzatrici del sistema dell’apprendistato non pagato”. Che in inglese si dice internship, ma possiamo tradurre liberamente con precariato. Ma peccato. Peccato davvero.

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