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Oscar 2017: le pagelle, i premi e lo strano caso ‘Moonlight’

La gaffe per il miglior film, la felicità di Emma Stone, la delusione di Ryan Gosling e il boicottaggio a Trump: tutto questo e molto altro nelle nostre pagelle su quanto successo ieri sera al Dolby Theatre
Tutti gli attori premiati con l'Oscar, foto di Frazer Harrison/Getty Images

Tutti gli attori premiati con l'Oscar, foto di Frazer Harrison/Getty Images

Scriviamo questo pezzo dopo aver visto Warren Beatty (voto 1, probabilmente è vittima di altri, ma di quest’attore straordinario rimarrà su YouTube e sui social l’errore che nessuno vorrebbe mai fare) fermarsi nell’annuncio del vincitore, neanche fossimo nel comizio di Bullworth per il quale aveva assunto un sicario contro se stesso. Scriviamo dopo averlo visto tremare davanti a un microfono dicendo che gli avevano dato la busta sbagliata, quella di Leo DiCaprio con cui aveva proclamato Emma Stone miglior attrice. Scriviamo, insomma, subito dopo aver visto forse la più clamorosa delle gaffe che permetterà a una delle edizioni più noiose e compassate del dopoguerra di essere, forse, ricordate.

Oscar al miglior film: Moonlight

Faye Dunaway e Warren Beatty. Genio lei (voto 0,5, si salva in corner fuggendo) che vede il nome sbagliato nella busta e gli accarezza il braccio, come dire “pensaci tu Dick Tracy”. Lui sta zitto, finge di creare suspense, poi lo mostra a lei per cercare conforto. Lei non ci pensa, legge e dice La La Land, tanto è il favorito. Sale la truppa del musical che ha conquistato tutti. Chazelle non si vede, Emma Stone fa facce stranissime e soprattutto perplesse. Ma parte il discorso di ringraziamento, partono i festeggiamenti. A un certo punto Fred Berger (voto 10 e lode, che presenza di spirito e che classe), uno dei produttori di La La Land, butta la bomba. “Ha vinto Moonlight, non sto scherzando ragazzi, salite”. È sconvolto, ma aggiunge “sono felice di passarlo a loro”.

Nessuno ci crede – non che sia felice, ma che sia avvenuto l’errore -, e lui allora prende la busta strappandola di mano a Beatty e la gira. E’ così: l’Academy Award (voto 0, nell’edizione più noiosa e meno riuscita, porta a casa la figuraccia per eccellenza) avrebbe dato, secondo il divo, la busta sbagliata a lui e Faye Dunaway. Così dice il delatore Warren, 80enne, tutto tremolante al microfono, con lei fuggita chissà dove. Davanti a tutto il mondo si prende la colpa, il suo secondo errore della serata. D’ora in poi si dirà: che figura di Beatty hai fatto. Eppure è lei che ha sbagliato, certo perché lui non abbia segnalato il problema rimarrà un mistero. Praticamente Warren Beatty è come Roberto Baggio. Al Divin Codino han dato tutti la colpa dei mondiali del 1994 persi ai rigori. Ma la colpa vera era di Massaro e Baresi, che però, come Faye, han fatto finta di niente.

E il sospetto che senza Berger non avrebbero detto nulla, quelli dell’Academy – è stato lui a dirlo, non Kimmel né l’antipatico valletto che faceva il cronometrista ai discorsi di ringraziamento – lo hanno in tanti. Leggenda vuole, infatti, che sia già successo.
Era il 1993, e per Mio cugino Vincenzo vince Marisa Tomei. A premiare Jack Palance, 74enne. Secondo molti quella sera, come quasi sempre, troppo ubriaco per leggere il foglio. E così Steve Pond di Première, nel libro The Big Show: High Times and Dirty Dealings Backstage at the Academy Awards, svelò, sempre smentito, che il premio dovesse andare a Vanessa Redgrave. Ma che gli organizzatori avessero preferito tenere tutto sotto silenzio. Fino a ieri sembrava una leggenda metropolitana. Oggi, francamente, meno.

Oscar al miglior regista: Damien Chazelle

Con i suoi 32 anni e spiccioli ha battuto un record che durava da 86 anni. È il più giovane cineasta a portarsi a casa la statuetta. Damien Chazelle (voto 9, dopo Whiplash torna e vince 6 statuette con La La Land: è nata una stella), contro ogni previsione, farà felice Donald Trump (voto 0, perché se lo merita comunque), che non ha visto gli Oscar ma che è stato più volte citato, e persino contattato su twitter da Jimmy Kimmel (voto 3, ma voi continuate pure a lamentarvi dei Paolo Ruffini ai David, eh).

Eh già, perché La La Land era il film preferito dai suoi elettori – più di Hacksaw Ridge (voto 7, a volte ci vogliono film d’altri tempi) dell’eroe della destra religiosa Mel Gibson (voto 5: vorremmo anche noi quello che si è preso lui: sgranava gli occhi e sorrideva fuori tempo, sembrava Montesano a Sanremo) e di Sully del grande elettore Clint Eastwood (neanche nominato) – e perché Damien riporta il riconoscimento negli Stati Uniti dopo 7 anni.

Nel 2010 vinse infatti Kathryn Bigelow, poi uno di Taiwan, un francese, un inglese e due messicani hanno fatto man bassa (solo tre statunitensi negli ultimi 14 anni hanno vinto la miglior regia, per chi volesse urlare all’Amerikacentrismo dell’Academy, rigorosamente con la k). L’America agli americani, diamine! Peccato che Donald dirà sicuramente che Emma Stone è una cozza, ma non si può aver tutto.

Oscar al miglior attore: Casey Affleck

Momento splendido della serata. Forse quello in cui dovevamo capire che dopo ore soporifere sarebbe arrivato il carnevale. Eravamo pure partiti bene con Justin Timberlake (voto 9+, non diamo il voto massimo perché poteva evitare alla compagna Jessica Biel quel vestito da divinità azteca) che ha fatto ballare ospiti e candidati trasformando il teatro in un dance floor con un’entrata in scena tra il Renato Zero di Fantastico e il John Travolta di Grease, ma tenendo il palco, anzi la platea come nessuno. E dal vivo.

Da lì, però, il nulla: tutti mosci, neanche un insulto a Donald Trump (al massimo uno sceneggiatore che dice “se ce l’ho fatta io, ce la potete fare anche voi afroamericani transgender!”), Kimmel che ha l’umorismo di un koala depresso. E che prova a ravvivarci con un gruppo di povery che già fanno ridere poco nel suo show e che qui, smartphone alla mano, vengono portati in giro come bestie rare tra i vip che li trattano con condiscendenza. Quasi tutti neri, ovvio, tanto per rovinare lo sforzo di premiarli, gli americani ci confermano che loro uomini e donne di colore li apprezzano, ma con smoking e vestito da sera. Neanche Trump, appunto, l’avrebbe fatta più patetica e classista.

In ogni caso, siamo al miglior attore. Brie Larson bella come una dea annuncia a sorpresa un risultato comunque meritato: trionfa Casey Affleck (voto 8, bravissimo nel suo protagonista dolente e compresso, voto 4 per quella barba inguardabile), uno da sempre sottovalutato, per Manchester By The Sea (voto 8, gran film). Denzel Washington era già pronto ad alzarsi e bloccato dall’annuncio, prova a fingere felicità: gli esce la faccia di Bonucci quando parla con Allegri. Ryan Gosling sorride amaro e sulla fronte gli compare la scritta “ecco, lo sapevo, finirò per diventare il nuovo Di Caprio”. Affleck non ci crede e in confusione ringrazia Washington (perché?) e ignora il fratello Ben che è commosso fino alle lacrime. Ringrazia tutti con la sua barba da terrorista Isis e se ne va incredulo come quando l’intervistatrice del red carpet (voto 1,5: quanto sono scarsi i presentatori del pre-Oscar americano?) gli aveva chiesto “come mai si fanno film così belli a Boston e dintorni?”. Ah Garfield e Mortensen hanno fatto il classico sorriso “ma adesso possiamo tornare a casa?”.

Oscar alla miglior attrice: Emma Stone

La sua vittoria era più scontata di uno scudetto della Juventus. Lei ne approfitta per salutare anche quelli della palestra, l’amica immaginaria e la sorella spirituale. A Ryan Gosling lo sfotte: “grazie per avermi fatto ridere”. Poi sembra quasi equivoca quando aggiunge “e per aver tirato sempre più su l’asticella”. Natalie Portman, che aveva capito tutto, è rimasta a casa a guardarsi CSI, approfittando della scusa della seconda maternità, Meryl Streep aveva la faccia di chi per metà voleva andarsene subito perché aveva un’apericena con le amiche e per l’altra metà non credeva neanche lei che Florence valesse la nomination. Però già che c’era, dopo l’unica vera battuta politica di Kimmel, talmente riuscita che l’ha rovinata ripetendola allo sfinimento (la citazione del giudizio cinematografico del presidente degli Stati Uniti contro la diva), si alza in piedi di scatto e si prende una standing ovation (alla fine saranno tantissime, sembrava di stare a messa, alcuni giuriamo che non abbiano nemmeno sprecato tempo a sedersi) con tutti che scattano in piedi neanche fossimo a Pyongyang davanti al leader nordcoreano. La Huppert è sempre simpatica come Brunetta a un talk politico, la Negga è lì in gita premio.

C’è da dire che hanno messo Amy Adams (voto 10, chiamatela sua maestà per cortesia) a premiare il montaggio e ha fatto capire chi comanda. Mentre la vincitrice ha deciso per un look da Ferrero Rocher e la Streep era ancora con il vestito del martedì grasso, lei era semplicemente celestiale. Con una scollatura da infarto, un vestito semplice e perfetto e una classe e un’ironia da urlo.

Oscar al miglior attore non protagonista: Mahershala Ali

È il primo premio a venir consegnato. E sembra una dichiarazione politica: di tutte le nomination di Moonlight (voto 5,5: film molto sopravvalutato), la sua è la più debole. Ma è afroamericano, di religione islamica e l’opera in cui recita parla di un nero per di più gay. Praticamente lo strike del politicamente corretto. Jeff Bridges sembra felice lo stesso, nonostante lo scippo, anche se quella pacca sulla spalla sembra più un’aggressione. Michael Shannon non capisce che succede (per fortuna, meritava anche lui) perché è ancora scosso dal balletto di Timberlake.

Vince il peggiore: pure Hedges e Patel avevano fatto meglio. Moonlight così prende il primo e ultimo premio della cerimo-nia. E fa capire a tutti che gli Oscar razzisti dell’anno passato – total wasp – sono un ricordo: quest’anno è l’essere bianchi il problema. A meno che tu non sia Denzel Washington, di tutti i film sulla questione razziale hai fatto il più bello e sei l’unico a saltare il giro, consolandoti con l’Oscar con ovazione (e discorso noiosissimo) di Viola Davis.

Oscar alla miglior attrice non protagonista: Viola Davis

Appunto. Qui c’era non solo la quota black, ma anche quella pink e pure il fatto che era già alla terza nomination, l’eccellente Viola. Michelle Williams e Nicole Kidman ormai sono habituée ed evidentemente sono venute solo per sfoggiare i loro vestiti, così da rispettare gli accordi con i loro stilisti. Octavia Spencer (voto 6, a naso l’ha vestita Giovanni Rana) ci crede, ma scopre di non avere ‘il diritto di contare’. Naomie Harris (voto 8, quella grinta non gliela sospetti, ma quando la tira fuori fa paura), forse tra tutte le candidature afro degli attori, la più solida e giusta, perde ma si rifà esultando dopo, come neanche Tardelli nel 1982, in faccia a quelli di La La Land. Bella lei.

Gli italiani e il film straniero

Esultiamo subito, diventando per una notte tutti truccatori, per il trionfo di Alessandro Bertolazzi e Giorgio Gregorini per il trucco e parrucco di Suicide Squad. Se li avete sentiti in questi giorni nelle interviste, non potete non adorarli: uno gode nel presentarsi come l’emigrante che ce l’ha fatta e che sta lì per caso (ma è un genio), l’altro è dolce e silenzioso. Bellissimi i loro discorsi: il primo il premio lo dedica ai migranti “come me”, il secondo alla moglie che lo ha lasciato vedovo. I migranti di Lampedusa non portano la statuetta a Gianfranco Rosi, che si alza per primo insieme a Donatella Palermo per congratularsi con i registi del film più lungo mai candidato all’Oscar, O.J.: Made in America, di Ezra Edelman and Caroline Waterlow.

Straordinario Asghar Farhadi che il suo secondo Oscar non va a prenderlo: in quanto iraniano lo ha fatto per protesta. Come Marlon Brando per gli indiani. Lui ha fatto leggere una lettera. “Mi dispiace non essere con voi ma la mia assenza è dovuta al rispetto per i miei concittadini e per i cittadini della altre sei nazioni che hanno subìto una mancanza di rispetto a causa di una legge disumana che ha impedito l’ingresso negli Stati Uniti agli stranieri. Dividere il mondo fra noi e gli altri, i ‘nemici’, crea paure e crea una giustificazione ingannevole per l’aggressione e la guerra. E questo impedisce lo sviluppo della democrazia e dei diritti umani in paesi che a loro volta sono stati vittime di aggressioni. Il cinema può catturare le qualità umane e abbattere gli stereotipi e creare quell’empatia che oggi ci serve più che mai”. Niente paura, però. Il produttore de Il cliente, che è valso al regista il secondo Oscar dopo Una separazione, è Amazon. Con Prime la statuetta entro mercoledì arriva anche a Teheran.

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