Una foto. Bastò un’immagine di Loro, mesi fa, per far scrivere pagine di giornali: fu sufficiente quel Toni Servillo pesantemente truccato, quel Berlusconi evocato più che imitato, ripercorso in un gesto e in un’espressione per far cadere editorialisti e critici in raffinate esegesi. Un paradosso, un riflesso condizionato che andava ben oltre il cinema, che agiva direttamente sul nostro immaginario e sulla capacità di un grande cineasta di saperlo interpretare, sentire, raccontare. E infine, probabilmente, di riuscire a incidere su di esso.
Una forma di consapevolezza che nasce probabilmente con Il Divo e che trova il suo apice in The Young Pope, un talento quasi warholiano che lo fa essere un autore totalmente contemporaneo, raffinato e pop, cosciente di ogni parte della macchina cinema, compresa quella promozionale. Pensiamo solo al bilanciamento abile di interviste e foto personali, di interventi radi e significanti nel dibattito culturale, nel sapiente equilibrio tra contenuti visivi e rumors sulle sue opere. E della capacità che ha di stupirti, facendo quello che altri non avrebbero il coraggio di fare: da uno spot per una multinazionale delle auto al meraviglioso corto per i David con i The Jackal.
Nelle sue mani – evviva – anche il lancio di un film diventa evento, arte, visione. E sì, come commercio vuole, anche un po’ di manipolazione. Con il teaser di Loro, un po’ come fece in senso diametralmente opposto con quello de La grande bellezza, Paolo Sorrentino ci sta trollando. Ci solletica, ci incuriosisce, ci provoca e ci prende per il culo. Ci dà quello che fan e detrattori si aspettavano: musica, donne, sensualità, un viso sfuggente (quello lo dovremo scoprire, pur avendone una foto molto esplicativa, solo in sala), una frase che presto diverrà il nuovo “Io non volevo solo partecipare alle feste, volevo avere il potere di farle fallire”. Trenta secondi che hanno fatto parlare in tanti: giornalisti, critici, cinefili, gente comune. Status sui social di uomini e donne in sollucchero, altri indignati per “La grande bellezza 2”, “ha rotto con questo grottesco”, “un film nato vecchio”.
Eppure il cinema di Paolo Sorrentino avrebbe dovuto insegnarci qualcosa: la sua capacità di reinventarsi, di andare altrove, di cercare sempre un angolo visuale alternativo sia pure, è vero, dentro una cifra stilistica personalissima e ormai iconica, soprattutto nella scrittura e in alcune immagini, divenute quasi archetipi. Una sorta di firma presente in tutti i suoi film. Ma parafrasando Jep Gambardella, lui non ha mai avuto solo l’ambizione di essere un grande regista, ma anche di far fallire i meccanismi ideologici e ingannevoli della società dello spettacolo, partecipandovi. E soprattutto sfruttandoli: dimenticate i (cattivi) maestri italiani che giravano film perché non venissero guardati da nessuno e che in questo trovavano la loro grandezza (come il grande Battiston in Io c’è di Aronadio, emblema dell’intellettuale radical chic, che scrive libri che non devono essere letti). Grazie a Dio il nostro in quei disastrosi anni ’80 e ’90 sentiva musica in inglese e guardava meravigliose partite di pallone.
Sorrentino i suoi punti cardinali li ha enunciati nella sera in cui è arrivato sul tetto del mondo: Diego Armando Maradona, Federico Fellini, Martin Scorsese e Talking Heads. Tutti dediti al diletto dello spettatore, tifoso, ascoltatore, tutti devoti al pubblico senza esserne schiavi. Tutti alla ricerca della massima bellezza per più persone possibili. E a cosa serve un teaser se non a chiamare a sé quanto più pubblico per partecipare a questa grande bellezza? E, in fondo, non è un concetto altissimo e complesso da comprendere, ma sembra che tutti siano cascati nel tranello anche piuttosto facile di Sorrentino e soci (non dimentichiamo produttori, ufficio stampa, tutti settati su questo storytelling abile, in qualche modo enunciato da Jude Law e Cecile De France nella sua serie tv). Se con La grande bellezza ci porta sul Tevere a scorgere Roma, aumentando l’attesa calcando sulla contemplazione della città eterna e andando nella direzione opposta di dove andrà il film, qui (come in parte anche in Youth, dove uno dei due protagonisti ha qualche somiglianza con Gambardella) richiama alla memoria il suo grande successo.
Un trucchetto semplice, anche divertente, che serve a creare quello che ora si chiama ‘hype’ e che al campetto sotto casa si dice “lo aspetto cor veleno”. E con questo teaser Sorrentino ridicolizza, un po’ come fece con Il Divo, l’ingenua superficialità della comunicazione moderna e ancor di più quella di chi la cavalca, crea miti e muore dalla voglia di demolirli: che si chiamino Silvio o Paolo. Ci trolla, dando per scontato che tutti ci cascheranno, che di Loro con pochi secondi di immagini parleranno tutti (compresi noi) e che si alzeranno le aspettative, positive e negative, così come le urla “sarà un capolavoro” o le accuse di killeraggio (leggete Renato Farina su Libero, per dirne una, che si lamenta pure del mancato accento lombardo di Servillo-Berlusconi). E, naturalmente, il box office. Perché ormai Sorrentino è elemento di discussione nei salotti, alle cene, fuori dalle sale: lo vai a vedere come trent’anni fa si leggeva Il nome della rosa di Umberto Eco. Perché devi dire la tua su di lui (e sarà sempre sbagliata). Perché Sorrentino ormai è un sostantivo, è andato oltre l’aggettivazione del maestro Fellini.
Certo, forse in questa consapevole capacità di trollare il mondo intero i due sono più simili di quanto entrambi vorrebbero.