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‘Prima che la notte’, Vicari racconta il giornalismo antimafia dimenticato

Il regista di Diaz torna in tv con un film che racconta la storia di Pippo Fava, giornalista ucciso dalla mafia: «Era convinto che un giornalismo fatto di verità potesse cambiare il mondo. Per questo cercarono di mascherare la sua morte».

Fabrizio Gifuni, in ‘Prima che la notte’

È appassionato e intenso, il regista Daniele Vicari (Sole Cuore Amore, Diaz, Velocità Massima) quando parla di Prima che la notte, filmtv con Fabrizio Gifuni, Dario Aita, Lorenza Indovina, che racconta gli ultimi anni del giornalista Pippo Fava, ucciso dalla mafia il 5 gennaio del 1984 a Catania, in onda il 23 maggio, Giorno della Legalità, su Rai Uno.

Prima che la notte, tratto dall’omonimo libro di Claudio Fava e Michele Gambino, uno dei carusi, i ragazzi con cui Fava fondò e autofinanziò I Siciliani, su cui attaccava il potere mafioso catanese, è stato salutato da un lungo e caloroso applauso dal pubblico del Bif&st di Bari, dove è stato presentato in anteprima, alla presenza del regista e dei protagonisti.
«Pippo Fava era un uomo libero, un artista, un autore di teatro, oltre che un giornalista – racconta Daniele Vicari – Un uomo pieno di contraddizioni, un affabulatore. Il suo giornalismo era atipico, spregiudicato, ma etico. Fava era convinto che un giornalismo fatto di verità potesse cambiare il mondo. Per questo cercarono di mascherare la sua morte con banali storie di corna. Tanto è vero che Il Corriere della Sera uscì, il giorno dopo, con un semplice trafiletto: è morto un giornalista a Catania. Niente altro! Ci vollero anni per accertare che era stato ucciso dalla mafia».

Nonostante tante eccezioni, siamo al 45° posto nel mondo, per libertà di stampa.
«Oggi il giornalista non riesce a svincolarsi da condizionamenti potenti e persuasivi. Vive una precarietà drammatica, che è unica rispetto al resto dell’Europa, e lo rende più fragile e solo, lasciando grande spazio alle news discutibili del web. Per Fava credo che sarebbe stato impossibile scrivere ed esprimersi di questi tempi. L’inchiesta ha delle regole, e un rigore nell’affrontare i fatti, molto importante».

Per questo Fava si era attorniato di giovani (i carusi) giornalisti?
«Ha creato una scuola unica a mondo. Un’esperienza che nessuno di loro ha mai dimenticato, come ha raccontato Michele Gambino ( Miki, che nel film è interpretato da Carlo Calderone). Ma proprio questo stampo che gli ha dato Fava, gli ha fatto vivere una vita professionale difficile: Gambino ha fatto fatica ad andare avanti. Per non parlare di un altro dei carusi, Riccardo Orioles, (l’attore Federico Brugnone) per cui l’anno scorso Change.org lanciò una petizione per fargli ottenere i benefici della legge Bacchelli, che riconosce un vitalizio agli italiani illustri che vivono in povertà».

Fabrizio Gifuni è Pippo Fava, Dario Aita, il figlio Claudio e poi ci sono molti giovani e bravi attori siciliani che interpretano i carusi.
«È stata una esperienza significativa e coinvolgente. Fabrizio, Dario e noi tutti, abbiamo potuto sentire dalle parole di Claudio Fava e Michele Gambino, due testimoni reali, l’atmosfera che c’era in quegli anni, quello che è stato il rapporto con Pippo. E poi è stato determinante per Aita e Gifuni, vivere insieme ai giovani attori siciliani per un po’ di tempo, condividendo lavoro e momenti conviviali, ricreando così quelle dinamiche di gruppo necessarie al film».

Anche per lei è importante raccontare la verità?
«C’è una tendenza nel cinema mondiale contemporaneo a relegare in una specie di scantinato della coscienza tutto quello che ci accade intorno. Siamo travolti ogni giorno da fatti cruenti e il cinema non riesce più a raccontarlo. Sono contento che Prima che la notte vada in televisione, è il solo modo oggi per arrivare ad un pubblico più ampio. Molti ragazzi persino in Sicilia, non conoscono la storia di Pippo Fava e invece credo che questa vicenda possa indicare una strada oggi ancora percorribile, la possibilità di un futuro costruito sul principio irrinunciabile della libertà e della verità.»

Sua moglie è Costanza Quatriglio, documentarista e regista. Avete mai lavorato insieme?
«No, non è mai successo. Quando ho incontrato Costanza, se ne andava da sola, di notte, nei meandri della stazione Tiburtina a intervistare i ragazzi che si prostituivano. Mi ha fatto scoprire un rapporto fisico con le storie. Mi ha fatto innamorare del cinema reale, un cinema dentro, senza il quale non sarei riuscito a fare Diaz. Ci amiamo, ci confrontiamo su tutto, ma resta il fatto che abbiamo un modo diverso di fare il cinema».

Quale è stato il primo film che ha visto?
«Premetto, né a Collegiove (Rieti) dove sono nato, né nei paesi vicini c’era il cinema, quindi fino alla maggiore età non ho visto un film. Quando è uscito Conan il barbaro, con i miei amici ci siamo fatti un’ora e mezzo di treno, per vederlo. Ma ne è valsa la pena, l’ho trovato bellissimo.»

Quando c’è stata la svolta nella sua vita?
«Mi ero appena diplomato in telecomunicazione e lavoravo con mio padre come muratore nei cantieri, quando seppi che, dopo un colloquio, mi avevano assunto come operaio in una grande azienda. Per la nostra famiglia sarebbe stata una svolta importante. Ma io non volevo fare l’operaio, volevo andare all’Università. Mio padre capì, non si arrabbiò e mi lasciò scegliere.»

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