«Le canzoni sono di chi le ama», dice la Dori Ghezzi di Valentina Bellé. Sono a letto, lei e Luca Marinelli che interpreta De André, e si parlano a bassa voce, mormorando, biascicando, scalzati dal sonno e appesantiti dall’amore. E come le canzoni, forse anche i cantanti, gli artisti, quelli che abbiamo imparato a conoscere nel corso degli anni appartengono a chi li ama. Anche De André, che nel film di Luca Facchini, una produzione di Rai Fiction e Bibi Film, diventa qualcos’altro, più di un ricordo, più di un nome, una persona vera, diversa, riconoscibile per chi l’ha conosciuto, credibile per chi, pur con qualche riserva, lo guarda.
Si intitola Fabrizio De André. Principe Libero, sarà al cinema il 23 e il 24 gennaio con Nexo Digital, poi in televisione su Rai 1 il 13 e il 14 febbraio. Alla libertà del titolo si fa riferimento solo una volta in modo diretto. Per tutto il resto del film – che in realtà è una mini-serie in due parti, e che in sala arriverà in una versione mastodontica di 3 ore – è un dettaglio sullo sfondo, qualcosa di cui non si parla mai, ma che senti – tu, spettatore – che c’è.
E poi ci sono la musica, la creatività, le parole. «È per questo», dice Ennio Fantastichini, che interpreta il padre di De André, sua guida e guru, «che esistono gli artisti». Per trovare le parole giuste da dire. De André era un poeta, un genio – come ripeteva in continuazione Paolo Villaggio, che qui, nella versione di Facchini, è interpretato da un Gianluca Gobbi praticamente identico: stessi occhi, stessa faccia; addirittura stessi capelli.
Il De André di Marinelli, però, non è quello canonico, quello già raccontato da tabloid e scrittori, quello che forse ci si aspetterebbe di vedere in un simil (simil, sì) biopic. È una versione più umana, molto più privata e intima, che vive una vita sua, una vita a parte, e che trova nell’interpretazione di Marinelli tutto quello di cui ha bisogno: una voce, prima di tutto; una voce che è altra, non genovese, che resta sospesa per tutto il tempo in una dimensione di finzione, utile alla narrazione, che aderisce più al tono naturale di Marinelli che a quello che aveva De André; poi una faccia, due occhi belli e intelligenti dallo sguardo intenso, un naso importante, e capelli che nascondono, camuffano, aggiungono mistero al mito.
Principe Libero è un film pensato per la televisione e che ha quindi dei momenti costruiti per le pause, per le interruzioni (la camera che scivola via, che si concentra sul cielo; inquadrature che sfumano nel nero, altre che si cristallizzano), e che talvolta pecca di passaggi da una scena all’altra troppo fumosi. Principe Libero è un omaggio e come tale, insomma, andrebbe visto. Nella scrittura di Giordano Meacci e Francesca Serafini, già sceneggiatori di Non essere cattivo di Claudio Caligari, che De André l’hanno conosciuto, rivive una storia che sa di nuovo, di fresco, che non s’adagia – come invece poteva fare – sul qualunquismo dei luoghi comuni e dei sentito dire, ma che prova ad andare oltre.
Eccovi il De André uomo, una versione di dieci, cento, mille altri De André. Poi ci sono le versioni degli altri personaggi. Come la Dori Ghezzi di Valentina Bellé, ammaliante nel suo mezzo sorriso, nella sorpresa continua che le illumina gli occhi. Oppure come il Mauro De André, fratello maggiore di Fabrizio, interpretato da Davide Iacopini, che insieme al padre, al “volpone”, ha il compito di tenere in carreggiata il cantautore. Quindi la Puny di Elena Radonicich, la prima moglie di De André e la prima persona, forse, che impara a conoscerlo veramente e che è pronta – subendo tradimenti, scuse e improvvise scomparse – a sostenerlo.
Poi c’è Genova, c’è la città vecchia, ci sono le puttane, gli ubriaconi (Faber per primo) e i pescatori; ci sono decine e decine di mani segnate, gonfie, vecchie. Ci sono seni, gambe, sorrisi, occhi e labbra. Infinite Bocca di rosa. E in sottofondo si sentono sia le canzoni cantate dal vero De André sia quelle, perfette per il film, cantate da Marinelli. I due si sovrappongono, si accavallano; per qualche istante, meravigliosamente, si sommano.
Di licenze creative, in Principe libero, ce ne sono diverse; gli sceneggiatori l’hanno precisato in una nota, ammettendo senza paura che alcuni fatti, pur veri, sono stati rimaneggiati per scopi narrativi. E quindi, per esempio, non è la madre ma il padre di De André che gli regala la sua prima chitarra. Il racconto inizia e finisce come un cerchio, con il rapimento in Sardegna, quarant’anni di vita che si rincorrono in tre ore.
È un affresco, questo Principe Libero. Ma non un affresco neoclassico o realista. È un affresco passionale, forse più impressionista, pieno d’accenni, di figure che si divorano, di mondi che non si riconoscono ma che si sentono – vedi qualcosa, ti sembra familiare e ti abbandoni ai tuoi ricordi, che a loro volta finiscono per unirsi alla storia del film.
In alcuni momenti Marinelli scompare, le luci fanno il loro gioco, il naso proietta la sua ombra, e quello che vediamo sul palco, curvo, armato di chitarra, le labbra schiuse e gli occhi aperti verso il pubblico, è De André. Quello vero? Quello che è stato? Forse no; forse è solo quello che abbiamo ascoltato e imparato ad amare. Ognuno a modo suo. E proprio per questo nostro.