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“Quel fantastico peggior anno della mia vita”, il gioiello di Locarno

Il cinema indipendente americano continua a scaldare i cuori di Piazza Grande, con un romanzo di formazione che ricorda il cult "Noi siamo infinito". Ed è nata una star: Thomas Mann (non è uno scherzo)

Immaginate un 24enne che si porta addosso da sempre il nome Thomas Mann. Non deve essergli riuscito difficile diventare Greg, liceale insicuro, capace di odiare se stesso con mirabile delicatezza e di disprezzare la folla dei suoi coetanei con ironia, cospargendo il tutto di un nichilismo in cui non crede ma che sa usare al meglio per sopravvivere.

Un nerd capace di girare con l’Earl del titolo originale (Me and Earl and the dying girl) ben 42 miniremake di classici del cinema, visto l’amore per la Settima Arte che il papà del protagonista, sociologo mal vestito e incline all’indolenza, ha loro regalato con un’ossessione per Werner Herzog esilarante. E varrebbe la pena vedere questo film gioiello solo per le sequenze di homevideo (nel senso di film fatti in casa, però): geniali, come i giochi di parole dei titoli. Da A sockwork orange – in cui si consulta un motore di ricerca da Oscar: Droogle – a 2.48 pm Cowboy, passando per Raging Bullshit e Monorash, Rosemary Baby Carrots e Scabface, The 400 Bros e Eyes Wide Butt.

Ma c’è molto più di un gioco cinefil-parodistico in Quel fantastico peggior anno della mia vita (nelle sale italiane dal 3 dicembre). Non fatevi condizionare dal titolo italiano imbarazzante, Thomas Mann e Olivia Cooke sono splendidi protagonisti di un’amicizia adolescenziale minata dalla malattia – un genere che ha ripreso vigore negli ultimi anni, vedi Colpa delle stelle -, ma soprattutto di un racconto struggente e sensibile sull’età peggiore, sulla prepotenza di un momento della vita che sa vessarti come pochi altri, che può spezzare o schiacciare chi è così sensibile da non riuscire a lottare. E allora Alfonso Gomez-Rejon, al secondo lungometraggio cinematografico ma già padre di molti episodi di Glee e American Horror Story, dirige un lavoro che ha una regia di alto livello, con virtuosismi che mai sono fini a se stessi ma che, piuttosto, assecondano i rischi della sceneggiatura, e giovani attori di grande talento. Da Mann, di cui sentiremo parlare a lungo e che si avvia ad essere uno dei migliori della sua generazione, alla dolce Cooke, più defilata e motore immobile della tempesta emotiva di Greg (a differenza della meravigliosa Emma Watson di Noi siamo infinito), ma efficace nell’aprirci il mondo del dolore e dell’amicizia con quegli occhioni grandi e sorrisi speciali.

Mann si prende sulle spalle i cambi di registro, quell’apatia in realtà vitalissima, i trucchi comici e la malinconia invincibile, le scene madri e quelle di raccordo, sostiene con maturità sorprendente anche sequenze come quelle dell’ospedale, di uno spessore narrativo e visivo così alto che solo un campione poteva tenergli testa. È lui il segreto di questo film, apparentemente già visto, ma che ha il coraggio di raccontare la malattia di lui, quell’insicurezza parossistica che solo un vero nerd conosce, ha vissuto e ancora sconta, piuttosto che la leucemia di lei, quasi più rassicurante nella sua crudeltà. Gomez-Rejon ha la capacità di rovesciare lo stereotipo, di rifiutare regolarmente la scelta più facile (la divinizzazione della famiglia, l’amore, le svolte rassicuranti, l’eroismo del salvatore) ma di andare, naturalmente, laddove è impervio. Con immagini stupende come quell’animazione antica e poetica o caratterizzazioni perfette come la pavida meschinità di Greg, onesta e consapevole e per questo quasi nobile.

Me and Earl and the dying girl – dateci la soddisfazione di citarlo con il suo titolo vero – è uno sguardo disincantato e romantico sull’incubo dell’adolescenza, della maturazione, delle prove che la vita ti impone. E con la musica di Brian Eno, per fortuna, ci dice che il cinema, a volte, può essere uno splendido rifugio e un luogo di rinascita (Greg, a proposito: il film per Rachel è arte pura).

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