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“Romeo e Giulietta” ai tempi dei Rom. L’inviato di Rolling dal Festival di Locarno

Al via la 68a edizione del Festival del film Locarno. Ma proteggetevi dallo spoiler, perché iniziamo con il film di Massimo Coppola, che andrà in onda su Rai3 stasera
I nuovi “Romeo e Giulietta” si chiamano Nino e Mary e vivono a Roma, nel campo nomadi di Tor de’ Cenci

I nuovi “Romeo e Giulietta” si chiamano Nino e Mary e vivono a Roma, nel campo nomadi di Tor de’ Cenci

Mica è facile cavarsela, in questi casi. Inizi una collaborazione, dal Festival del film Locarno, e pronti via il primo articolo è sul direttore. E allora sei lì e pensi: mi noterà di più se incenso il film, se lo stronco, se lo vado a vedere e lo ignoro temendo il conflitto di interessi, se ne parlo bene pensandone male o viceversa? E mentre morettianamente mi consumo in questo interrogativo, calano le luci sul Kursaal (un cinema con sotto e accanto un casinò, bella metafora) e comincia Romeo e Giulietta.

Per fortuna che, forse per quella somiglianza con Cesare Cremonini, mi dimentico dell’identità del regista, anche se spesso è in scena.
«Bravi, avete fatto il cinema». «Vero?». «Sì». Ok, lo ammetto, è uno spoiler, se state leggendo aspettando che stasera, alle 23.40, parta su Rai3 il film, un po’ vi arrabbierete. E se siete in Ticino e vi state avviando al Fevi, dove alle 17 ci sarà la prima, pure un po’ di più. Ma è difficile non raccontare questo film non partendo da quella frase asciutta, sorridente, assertiva. Che poi è il modo in cui affronta quest’avventura il cineasta: senza sche(r)mi. In prima persona, ecco perché forse viene naturale scriverne, contro ogni regola giornalistica o di critica cinematografica, partendo da sè.

Coppola ha una bella idea: portare Shakespeare in Rom. Romeo e Giulietta in un campo nomadi, può essere tenero e lacerante. Quella storia d’amore così pura, dura, implacabile, nel bene e nel male, finisce per far emergere certe contraddizioni culturali, cortocircuiti affettivi e antropologici, in mano a un cineasta che ha sempre visto le macchine da presa come porte aperte verso altre realtà. Da affrontare senza paura nè ipocrisie politicamente corrette, con la semplicità di una battuta o di un ragionamento essenziale e per questo spesso disarmante.

L’immediatezza dialettica, la metafora che diventa violenta perchè inevitabile, visivamente si traduce nella voglia di rischiare: con la GianniCam, sorta di selfiecinema in cui ciò che conta, però, non è chi è parzialmente inquadrato, in uno specchietto, ma ciò che osserva. Ed è Gianni, appunto, a offrirci spicchi di vita. Lui, che con i suoi 11 anni è il più sveglio di tutti, lui che ha imparato tutte le battute a memoria della pièce che vuole mettere in scena il regista, lui che ha un volto comico e irresistibile. Per farvi capire come spariglia le carte questo scugnizzingaro, è un rom che sogna di fare il poliziotto.

Tor De’ Cenci, Roma, diventa subito Verona. I clan rom tenuti a bada da Asco fanno sembrare Montecchi e Capuleti dolorosamente e grottescamente attuali, l’incredulità a volte perfida dell’autore è la nostra. O forse no, perché è inevitabile interrogarsi su quanto quelle regole tribali, lì codificate, siano anche nostre. Italiane, occidentali.

A questo va aggiunto la sensibilità di chi dirige per i volti, le espressioni, nel catturare le emotività. E per un gusto estetico ed etico non codificabile, ma mai velleitario. Quello di Bianciardi e Ho paura del buio, per intenderci: due gioielli di rara bellezza (sia chiaro, direttore, la sua produzione culturale è tutta straordinaria, ovviamente, lo dico con la mia faccia sotto i vostri piedi), proprio perché capaci di entrare laddove, solitamente, si trovano porte sbarrate. E aprirle, sul serio.

Ho scritto di getto e non rileggo. Tanto sui social mi daran del leccaculo, il regista si lamenterà della superficialità della recensione, i Rom di non aver parlato abbastanza delle loro tradizioni. E Valerio Mastandrea di non aver citato la sua gustosa partecipazione (in cui il verbo partecipare va declinato nel senso più ampio del termine). Uno come lui che ha il carisma e il talento del miglior Mercuzio, qui fa da coach, da fratello maggiore, da ponte tra Roma e Rom. Una piccola pennellata, che cambia il verso del film, che ci porta dentro il senso profondo di quello che si sta raccontando. Con leggerezza.

Insomma, «bravi. Avete fatto il cinema».

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