“Volemo la stessa cosa, er bene de Roma”. Franco Acquaroli, un Samurai più ciarliero di quello del film, lo dice a Cinaglia, politico a metà tra il 5 stelle e il giovane dissidente del Pd. Su un autobus, l’87 per la precisione (mai visto così vuoto, a quell’ora). Suburra la serie, primo prodotto originale italiano di Netflix tratto dal lungometraggio di Stefano Sollima, può essere riassunto in questo dialogo, nella Roma in cui la mafia capitale è sistema locale ed efficiente, così oliato da aver bisogno solo di ingranaggi docili anche nell’emergenza. Dimenticatevi il terrore di Favino alla fine del film, ricordatevi l’Amendola che invece dice a un interlocutore al telefono che sotto la sua spada son passati tutti.
È arrivato il prequel di uno dei film più amati e discussi degli ultimi anni e racconta un Numero 8 (Alessandro Borghi, da urlo perché qui la sfida è ancora più difficile) che è ancora Aureliano, giovane orfano di madre ambizioso e inquieto, un Samurai ancora saldo nel suo essere “solo” uno dei re di Roma e alle prese con l’affare “porto di Ostia” e Spadino (Giacomo Ferrara, ottimo) che è outsider, in tutto, e che forse sarà il centro di un’alleanza tra lui, Lele (Eduardo Valdarnini), sorta di alter ego dell’Elio Germano pr proletario della Roma bene dell’opera cinematografica, e Aureliano. Perché come ne Il Padrino, l’educazione sentimentale dei criminali passa per la perdita (il cugino Boris), le mani lorde di sangue e tradimento, la convenienza e il ricambio generazionale. E sempre da Coppola ci si ispira per il Vaticano pieno di ombre, ipotenusa del triangolo criminalità-politica-chiesa, ben raccontato da una delle prime scene, schiaffo in piena faccia: un’orgia di droghe e sesso, con un alto prelato masochista al centro. Sarà questa la prima immagine che si stamperà nella mente di decine di milioni di abbonati in 190 paesi, il 6 ottobre prossimo. Niente male davvero.
A dirigere questi primi due episodi passati a Venezia 74 nella sala Giardino è Michele Placido – e si vede: a volte più che una macchina da presa sembra avere in mano un’accetta -, poi arriveranno anche Giuseppe Capotondi e Andrea Molaioli. «Per fortuna che andò male proprio qui a Venezia Ovunque sei, altrimenti non avrei fatto Romanzo Criminale e forse non sarei qui. È una sfida bellissima in un momento in cui sta cambiando la tv italiana e io sono proprio in mezzo a questa rivoluzione, sono felice di farne parte. Serve progettualità e qui mi sembra proprio che ce ne sia». Sulla serie, a chi gli propone paragone con altri prodotti seriali, fa notare che di «sesso, potere, tradimento parlava già Shakespeare». E non mostra paura per la politica neanche Barbara Petronio, sceneggiatrice e showrunner con Daniele Cesarano e un team (a Valenti e Marchesini sono subentrati Ezio Abbate, Fabrizio Battelli e l’uomo d’oro della sceneggiatura degli ultimi anni, Nicola Guaglianone: suo Indivisibili e Jeeg Robot così come i prossimi Verdone e Max Bruno, per dire) che ha già portato avanti Romanzo Criminale, inaugurando la stagione della grande serialità italiana moderna.
«Ovvio che la politica e Roma ci ispirino, è inevitabile, la stiamo raccontando nella sua essenza che è la fame di potere millenaria e inesauribile del cittadino romano. Sappiamo domarla, anche quando si avvicina pericolosamente alla fantasia. Al massimo dalla politica ne siamo spaventati come cittadini. Inoltre ringiovanire i protagonisti ci ha dato più libertà». Certo è che Cinaglia (Filippo Nigro) è disegnato sulla nuova ondata di populismo facile (e fragile) del vento che sta cambiando così come Claudia Gerini, donna potente nelle stanze segrete di San Pietro e dintorni, ricorda Francesca Immacolata Chaoqui e ciò che si è raccontato su di lei. «Non copiamo il presente», sottolinea l’attrice, «ma questa è Roma, un insieme indistinto di queste tre componenti: potere politico e non di rado corrotto, una Chiesa molto presente e criminalità». Il segreto sarà tutto qua: essere meno Gomorra – se non nelle scelte di attrici brave e carismatiche: qui abbiamo una Barbara Chichiarelli, nella parte della sorella cazzuta del futuro numero 8 e che sarà la vera grande sorpresa della serie – e più House of Cards. Deve raccontare la ragnatela di interessi, connivenze, i deliri di onnipotenza e le grottesche e volubili alleanze che solo la Capitale, santa e dissoluta, sa regalare. Tutti se vonno pijà Roma, da sempre. Ma Roma è di Roma stessa, dei suoi vizi capitali cantati da Muro del Canto e Piotta alla fine delle puntate – canzone pazzesca 7 vizi Capitale, anche se in colonna sonora la mancanza degli M83 si fa sentire -, Roma è carnefice e vittima di quella fame millenaria che la rende cannibale, che la divora.
È qui il motivo per cui Suburra, il bellissimo libro di Bonini e De Cataldo, è passato dall’essere un thriller dispotico a un reportage. E ora è un manuale di storia. La serie questo lusso non ce l’ha, dovrà misurarsi con un presente che rischia di superarla costantemente. Per questo è facile immaginare che dopo una puntata introduttiva bella ma a tratti macchinosa – vanno presentati tanti personaggi e comunque il 5 ottobre su Netflix ripassate Suburra il film – e una seconda che già ingrana una marcia altra, verso la metà si viaggerà a vele spiegate.
D’altronde Roma è così: sorniona, un diesel. Bisogna saperla aspettare.