Arrestato una notte a Roma nel 2009 con l’accusa di detenzione e spaccio, trasferito in due caserme dei carabinieri, portato di fronte a un giudice, di nuovo in galera e poi in ospedale, Stefano Cucchi muore in 9 giorni senza che nessuno riesca a fermare la sua lunga e dolorosa agonia. Fanno quasi dieci anni oggi. Un Cristo di borgata con la faccia tumefatta, la schiena livida, due vertebre incrinate. Nessuno vede (non vuol vedere) l’evidenza assoluta che quel ragazzo di 31 anni è stato picchiato dai carabinieri al riparo di una divisa, forse dalle guardie carcerarie. Dalle “guardie”, si dice a Roma in ogni caso. E quasi due processi non hanno ancora stabilito una verità giudiziaria.
Una specie di Sindone moderna la fotografia scattata dalla sorella di Cucchi, che è diventata simbolo di questa storia e dell’ostinazione di giustizia che da quel giorno la anima. Il film di Alessio Cremonini con Alessandro Borghi e Jasmine Trinca – produzione Netflix, si vedrà contemporaneamente in rete e al cinema – riparte (e finisce) da quella foto. Prova ad andare più a fondo per quel che si può. Ci ricorda la cupa ostinazione con la quale a lungo Cucchi nega a chiunque lo interroghi di essere stato picchiato dalle guardie. Nella discesa dell’abisso dentro le stanze e i corridoi di un carcere-ospedale, Cucchi è solo, isolato, impossibile da raggiungere anche per i suoi genitori e sua sorella perché queste sono le Regole.
Così, la sua reazione conferisce alla sua storia un livido meccanismo narrativo. Regista e sceneggiatori provano a darsi una spiegazione di questo assurdo silenzio: lo shock per le percosse, la sensazione di non essere al sicuro, la paura di una vendetta ulteriore, quasi una specie di residuo codice di strada. Nonostante abbia preso a lavorare con suo padre geometra, Cucchi ha un passato da tossicodipendente. Sta in equilibrio su un linea fragilissima: da una parte la tranquilla rispettabilità della sua famiglia, dall’altra il buio della galera e dei diritti sospesi. Una didascalia finale ci ricorda che quasi centocinquanta morti in galera si contarono quell’anno.
Sulla mia pelle è un film cristologico. E’ una Deposizione, ma con i colori lividi delle serie italiane Netflix e la musica dei Mokadelic (quelli di Gomorra). Il film esce e entra continuamente dal cinema per restare nella scarna evidenza della realtà, Alessandro Borghi e Jasmine Trinca danno voci, volto e corpo ai due protagonisti. Romani, nati entrambi in quartieri popolari, non devono andare troppo lontano per raccontare una storia che – lo dice Borghi – “poteva essere capitata a mio fratello, a un amico, anche a me”. Max Tortora di nuovo in un ruolo serio nella parte del padre di Cucchi, aggiunge una nota dolente, di rassegnazione. Per forza di cose – il processo non è chiuso – dei carabinieri e della guardie in divisa intuiamo soltanto una spaventosa estraneità.
Procedendo nella storia, grattando la facciata, a qualcuno la storia di Cucchi ricorderà il vecchio Mamma Roma di Pasolini, con il ragazzino ladruncolo morto in carcere, la disperata ricerca di rispettabilità di sua madre Anna Magnani. Un film girato per qualche strano paradosso negli stessi luoghi di questo: il quadrante di Roma est, tra il Tuscolano e Tor Pignattara. L’inganno della rispettabilità piccolo borghese nella narrazione di Pasolini si trasforma oggi l’incrudelimento generale, nel riflesso d’ordine, l’assurdo guardie e ladri per le cannette nella storia di Cucchi. Scettici rispetto al cinema “di denuncia” puro e semplice, regista e attori si augurano soltanto di riuscire a scalfire un po’ della pelle sempre più dura che ci toglie ogni empatia con gli altri, la convinzione di tanti che in fondo Cucchi era “un tossico” e quindi un po’ se l’è cercata.