La storia dello chef Massimo Bottura, massacrato dai critici per aver osato prendere le tradizionali ricette emiliane e averle riproposte in una nuova maniera, è nota a tutti quelli che hanno visto Chef’s Table su Netflix. In quella puntata si racconta in particolare del piatto in cui Bottura prende sei tortellini e li mette in fila su uno strato di brodo che si apre al loro passaggio, come se un tortellino Mosè stesse accompagnando il popolo di tortellini ebraici in fuga dall’esercito del Faraone tortellino. È stata un’idea geniale? Una furbata? Un’eresia? Non è importante, quello che conta è che a un certo punto ci si è messi a parlare di tortellini con rinnovato entusiasmo. In pratica ha preso una cosa che funzionava comunque e l’ha fatta funzionare diversamente, generando hype.
Cosa succederebbe se Massimo Bottura fosse direttore artistico di Sanremo? Non siamo certi di volerlo davvero sapere, ma probabilmente prenderebbe quello che già c’è di Sanremo e banalmente si farebbe venire delle idee. Sicuramente non allungherebbe il brodo (scusate il gioco di parole) di un format aggiungendone un altro già esistente, e tra l’altro già relativamente bollito (ops, l’ho fatto di nuovo).
Sarà Sanremo, il programma di selezione dei partecipanti a Sanremo Giovani in cui sono stati annunciati anche i concorrenti della sezione Big, è un modo di generare hype discutibile: unisce il 70% di X Factor, nelle scenografie e nel bancone della giuria, con il 30% di Amici di Maria de Filippi, nella controgiuria di giornalisti e (beh) pescando tra i concorrenti delle edizioni precedenti, riducendo l’elemento spettacolare di entrambi i programmi. Il risultato sono circa 2 ore e mezza di nulla montato a neve.
I cinque personaggi coinvolti per scegliere i destini dei cantanti non sono pensati per avere ognuno un ruolo «spettacolare», come “l’emotivo” o “lo stronzo” – a parte Massimo Ranieri che senza sforzo calza perfettamente la parte del “grande saggio” – e non dovendo nemmeno difendere un loro pupillo, non hanno la stessa forza, fanno il minimo sforzo di corrugare la fronte dando il triste annuncio dell’eliminazione. Ma al di là di questa scelta fatta probabilmente con leggerezza dagli autori (voglio essere naïve), c’è un problema ulteriore: una parte del dietro le quinte di Sanremo è stata trasformata nell’ennesimo show in cui giovani musicisti non vengono lasciati in pace nel delicatissimo momento del rifiuto.
Tempo fa intervistai Elodie, partecipante tra i Big di Sanremo 2017, quando ancora era all’interno di Amici. Dopo avermi parlato con un tono piuttosto disilluso del talent, conscia del fatto che la partecipazione (per non parlare della vittoria) era fine a se stessa se non seguiva un lavoro duro sulla propria carriera, mi disse con lo sguardo illuminato di sognare il palco di Sanremo. Non era solo una questione esperienziale (non cedeva un passo mentre con un divertito snobismo le raccontavo lo zoo che gira intorno al Festival), si capiva che Elodie voleva andare su quel palco per il senso di storicizzazione che dà partecipare, molto più solido del tritatutto dei talent. È vero che nella realtà la maggior parte dei pezzi di Sanremo ce li dimentichiamo la domenica successiva alla finale, compresi spesso i vincitori, ma a quel punto non è più un problema del Festival.
Perché Sanremo è Sanremo? Perché non è un talent. Perché è l’unica occasione per la musica italiana di prendersi sul serio, anche se spesso in modo barocco e ridicolo. Perché è il posto in cui ancora oggi vogliono arrivare i partecipanti dei talent. Imitarli non rende la “splendida kermesse” più fresh, ma la svilisce mostrando il fianco a una tipologia di show che non dovrebbe essere considerata concorrente.
Un’ultima parola sul commento in diretta dei giornalisti musicali delle grandi testate, con la forza dell’approfondimento di una paletta di plastica infilata nella sabbia della spiaggia di Cesenatico: basta.