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Trent’anni di Robocop: la legge di (Alex) Murphy

Usciva il 17 luglio 1987 un film che, tra ricerca di un'identità rubata o l'ossessione per la tecnologia e per la sicurezza, gettava uno sguardo sul futuro che oggi stiamo vivendo
Robocop

“Vivo o morto, tu verrai con me”. Voce da sintetizzatore vocale anni ’80 per creare il timbro robotico di un protagonista inusuale, bocca maschile e gentile, quella dell’onesto mestierante del grande schermo Peter Weller, e poi sopra un casco d’acciaio, come l’armatura che rende ovviamente macchinose e allo stesso tempo minacciose le movenze di un poliziotto di nuova generazione: Ed 209 (an)droide poliziotto, il sogno di ogni governo. Non pensa, spara. Non interpreta, obbedisce. Non ricorda, fa.

Ma il guaio è che troppo spesso gli scienziati pazzi partono dall’uomo per disumanizzare la società. E anche qui RoboCop altri non è che un povero cristo, poliziotto onesto e idealista, morto sul lavoro e rinato in un corpo lucente e corazzato per il solito esperimento di chi è drogato di profitto e deliri di onnipotenza. E si sa che, soprattutto al cinema, se c’è un barlume d’umanità alla fine verrà fuori. Grazie a una donna, a un collega, ai tuoi assassini, a un déjà vu.

Attenzione però, il capolavoro di quel regista folle e geniale che è Paul Verhoeven, uscito in sala il 17 luglio del 1987, è lontano anni luce dalle malinconie dei cugini di Blade Runner o dal carisma muscolare del “collega” Terminator, è piuttosto l’ultimo dei giustizieri e vendicatori degli anni ’70 alla Charles Bronson, Gene Hackman e Clint Eastwood, non uno degli alfieri del cyberpunk di cui, comunque, è esteticamente debitore.

E’ profetico RoboCop, pur essendo vintage. Esce in piena epoca Reagan e ne incarna l’ossessione sicurtaria, la paranoia verso la tecnologia, dea venerata e ricercata, ma anche temuta, persino i lati oscuri. Già perché se anni prima Fahrenheit 451 e 1984 pescavano nell’immaginario della letteratura di fantascienza, dando corpo alle nostre paure con l’onnipresenza di uno Stato invadente, ora il nemico è una multinazionale che finge d’essere impegnata socialmente e vuole prendere il potere fin dalle strade, il controllo totale. Il Grande Fratello è in mezzo a noi, non ci controlla, ci cammina a fianco. Magari con un’armatura a prova di proiettile.

Quello di RoboCop è distopia del presente, sebbene il libro da cui è tratto ambientava tutto 53 anni dopo: non ci sono cellulari, macchine volanti, teletrasporto, tutto è molto anni ’80, anche la sceneggiatura. Il film, quello vero, è il primo: la trilogia è puramente derivativa e alimentare, così come il remake più recente, nonostante nel secondo e terzo capitolo troviamo al comando Irwin Winkler (L’impero colpisce ancora) e la, già allora, star dei fumetti Frank Miller.

Difficile classificare un’opera che fa della semplicità e l’immediatezza la sua forza e che nasconde, nell’istintiva ed elementare progressione di fatti e sentimenti, una complessità naturale, quella della ricerca disperata dell’identità di chi ne è stato privato, incastrato in una società che punta a far diventare uomini e donne numeri, statistiche, clienti. Alex Murphy nasconde nella parte di sé meno espressiva un’emotività straordinaria, la sua legge è un misto di giustizia e vendetta, il suo essere un robot lo rende straordinariamente umano nella riconquista di sé.

E in fondo in questo lungometraggio c’è tutto Verhoeven, la sua riflessione sull’uomo e sulle sue contraddizioni, non di rado nel legame con un Sistema cinico fotografato nell’esercizio nichilista di Potere e Dominio. E non parliamo solo di un altro suo lavoro in qualche modo complementare, come Atto di Forza o ancora nel fantabellico Starship Troopers, ma anche di Black Book, che lo storicizza, o ne L’uomo senza ombra, che lavora sul corpo, anzi sulla sua assenza. E cos’è se non un’indagine sull’identità pure Basic Instinct?

Ma torniamo a RoboCop, che compie trent’anni nell’era che potrebbe davvero vederlo divenire in realtà. Il presidente USA è un tycoon, le multinazionali contano più degli Stati e pure dei Continenti e l’ossessione della sicurezza potrebbe rendere quel roboante e barocco “Vivo o morto, tu verrai con me” una frase di uso comune, magari al posto della lettura dei diritti.

Vedeva il futuro, Paul.
Il nostro.

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