È arrivata una svolta nel caso giudiziario che coinvolge da tempo Roman Polanski: Laurence Rittenband, il giudice di Los Angeles che 45 anni fa presiedette il processo per stupro contro il regista, disse privatamente agli avvocati che si sarebbe rimangiato la promessa fatta all’imputato che si era dichiarato colpevole di un reato minore per evitare di andare in carcere. La conversazione è emersa dalla trascrizione di una testimonianza che, fino a questo momento, era rimasta segreta e dove l’allora sostituto procuratore Roger Gunson affermò che Polanski aveva ragione a temere di finire dietro le sbarre.
Anche per questo, nel 1978, decise di fuggire dagli Stati Uniti alla vigilia della sentenza. La testimonianza risale al 2010, quando Gunson disse che il giudice Rittenband, morto nel 1993, era intenzionato a rompere la promessa di liberare Polanski dopo che funzionari dello Stato della California avevano determinato che non doveva più scontare una pena.
«Il giudice gli aveva promesso in due occasioni qualcosa che, poi, ha rinnegato. Non poteva o non voleva fidarsi del giudice», ha spiegato Gunson. Dopo questa rivelazione, l’avvocato di Polanski, Harnald Braun, rinnoverà la richiesta di far pronunciare la sentenza nei confronti del regista senza che quest’ultimo debba rientrare negli States, dove teme di essere arrestato. Ma il processo per arrivare a una conclusione dell’iter giudiziario in sua assenza si preannuncia lungo e complicato. Braun, infatti, ha chiesto che sia un nuovo giudice a occuparsi del caso perché quello attuale, Sam Ohta, non viene considerato affidabile dall’entourage del regista. «Otha è inutile», ha sottolineato Braun a Variety, facendo notare che il giudice per dodici anni si era opposto alla pubblicazione della trascrizione.
Roman Polanski, 88 anni, candidato all’Oscar per Chinatown nel 1974 e Tess nel 1979, vinse come miglior regista per Il pianista nel 2003, ma non ritirò di persona la statuetta perché già rischiava l’arresto. Una vita tribolata, quella dell’artista polacco naturalizzato francese: da bambino fuggì dal ghetto di Cracovia durante l’Olocausto, mentre in seguito sua moglie, Sharon Tate, fu una delle sette persone uccise nel 1969 dai seguaci di Charles Manson.
Poi, nel 1977, l’episodio che ancora si trascina in tribunale da 45 anni: l’accusa è di aver violentato, a casa di Jack Nicholson a Los Angeles, la giovanissima Samantha Geimer, che allora aveva soltanto 13 anni. Una trama complessa da ricostruire (a parte la minore età) perché, dopo l’accusa di stupro e la successiva condanna, la giovane scrisse un libro di memorie nel 2013, The Girl: A Life in the Shadow of Roman Polanski (con in copertina una foto che le scattò proprio il regista), dove la donna raccontava un viaggio alla ricerca della sua identità, più che un libro di denuncia: «Sono più di una “sex victim girl“. Ho scritto la mia storia non con rabbia, ma con l’obiettivo di ricercare me stessa».
E già nel 1997, alla rivista Vanity Fair, Geimer ammise di aver ormai perdonato il regista: «Voglio che possa tornare negli Stati Uniti e che questa faccenda finisca una volta per tutte». Ma in America la questione giudiziaria non si è mai conclusa, mentre Polanski in Francia, Svizzera e Polonia ha potuto continuare la sua attività di cineasta di successo, visto che questi Paesi hanno sempre rifiutato l’estradizione. Negli ultimi tempi, però, la vicenda è tornata alla ribalta, soprattutto dopo l’esplosione del movimento MeToo.