L’immagine più evocativa dei miei 37 anni alla Mostra di Venezia è quella di Tom Cruise e Nicole Kidman al Lido per Eyes Wide Shut, l’ultimo capolavoro di Stanley Kubrick che li fonde insieme sul set e li separa necessariamente nella vita, troppo più piccola e banale della storia che hanno appena interpretato. È il 1999, e la Mostra fa lo scoop con l’anteprima europea dell’ultimo film del più grande, appena scomparso. Si sente la sua presenza, che lì c’è il genio del cinema, da sempre lontano da tutti. Kubrick è a Venezia, difficile spiegare perché, ma l’atmosfera si respira intensissima. Le foto di Tom e Nicole, fino a quel momento la coppia perfetta del cinema mondiale, sono il frutto – oggi le rivedo con freddezza, ma mi commuovo lo stesso – di quell’ispirazione. C’è una leggera brezza, che scompiglia i loro capelli. Entrambi non hanno occhi che l’uno per l’altro, il resto è come se non esistesse. Lui indossa una t-shirt grigia e i jeans, lei un vestitino che la fa sembrare una ragazzina. Per me, da quel giorno, Venezia è diventata soprattutto un’emozione. Un’emozione, come quell’incantevole scricciolo di Anne Hathaway, l’eroina lanciata da Il Diavolo veste Prada (sempre presentato al Lido), che nel 2008 scoppia a piangere irrefrenabilmente, stringendosi a Jonathan Demme, il regista del suo nuovo film Rachel sta per sposarsi, mentre io, che li sto intervistando, resto senza fiato. Le ho solo chiesto cosa le resterà di quel film, la classica domanda introduttiva. Niente di che, insomma. Demme cerca di consolarla, la abbraccia, ma l’attrice non riesce a smettere. Come una bambina. Un crollo emotivo? C’era qualcosa tra i due? Il dispiacere di due strade destinate a separarsi? Non lo so, e neppure m’interessa.
Però so bene che alla Mostra di Venezia puoi trovare delle emozioni indimenticabili, se sei fortunato e sai come e dove cercarle. E quando le trovi (le ultime due, fortissime, sono state per Il cigno nero e Jackie, entrambi con Natalie Portman, di gran lunga la più brava attrice dei nostri anni), beh, poi torni a casa e mangi pane e brividi fino a Natale. Venezia serve a questo, per chi ci lavora. Per chi ci passa, a vedere un film o due, o magari a concludere un affare, senza guardare e senza capire, dando per scontate le ragazzine che vivono due settimane a bordo passerella solo
per una dedica del divo del cuore, o il bagliore del mare verde che dal red carpet dista sì e no 80 metri, o quell’atmosfera che da festa mobile si trasforma in un attimo nello strapaese dei cinematografari romani, tutti al bar perché fuori piove… beh, per chi non se ne accorge, peggio per lui. Ma torniamo a Natalie Portman e al 2010. Anteprima de Il cigno nero, film di apertura, da cui partirà la leggenda (avveratasi da quel giorno infinite volte) che i film che aprono Venezia prendono l’Oscar. C’è la crisi, e il party di apertura della Mostra si fa a lume di candela per risparmiare – simbolicamente – il costo dell’energia. Alla fine è talmente buio che non si vede a un palmo dal naso. Quello che si sente, invece, è il brusio degli addetti ai lavori sulla fortissima scena lesbo del film di Aronofsky tra la Portman e Mila Kunis. Roba seria! In sala c’è il presidente Napolitano, cinefilo d’esperienza, con la signora Clio, e l’interrogativo della serata è capire – lo si saprà dai giornali all’indomani – se anche lui sia rimasto scioccato.
Mentre ci aggiriamo sulla terrazza dell’hotel Excelsior, tra un urtone e l’altro, al buio, accade l’inevitabile: col mio cameraman andiamo a sbattere contro Napolitano! La sicurezza mi blocca, io pongo al Presidente una sola domanda. Quella. La risposta è che si tratta “di un film dai contenuti sicuramente interessanti”, e che anche donna Clio la pensa così. Considerando che ne Il cigno nero c’è follia, anoressia, complesso di Edipo e di Medea, omicidio, suicidio, autolesionismo, perversione e omosessualità, il giudizio del Capo dello Stato è uno scoop pazzesco. Il giorno dopo il mio pezzo sul tg viene annunciato dalle agenzie, e poi va sui giornali. Quando si dice un “appuntamento al buio”…
Mentre ci aggiriamo sulla terrazza dell’hotel Excelsior, tra un urtone e l’altro, al buio, accade l’inevitabile: col mio cameraman andiamo a sbattere contro Napolitano!
La prima volta che sono stato alla Mostra del cinema avevo 19 anni e sono evaso. Letteralmente, da una nave militare ormeggiata alla Giudecca, quattro bracciate a nuoto dal Lido, dove prestavo servizio come allievo ufficiale d’Accademia. Mentre i nostri colleghi dormivano, insieme a un altro intrepido 18enne, attratto come me dai lontani rumori che arrivavano dal Lido, dove era in corso la seconda Mostra diretta da Carlo Lizzani, scivoliamo a terra, chiamiamo un motoscafo e arriviamo all’imbarcadero dell’Excelsior, dove dal 1932 (anno della Fondazione della Mostra da parte del conte Volpi, che oggi campeggia in busto marmoreo all’ingresso della Sala Grande del Festival) sbarcano tutti i grandi divi del cinema, diretti alla Mostra. Luci, brusìo incessante, in lontananza l’audio di un film che proveniva dall’arena (la sala all’aperto davanti al Casinò, da tempo abolita): era il suono della Cultura, quello! Estasiati, ci lasciamo guidare dalla folla e arriviamo all’arena, dove l’ingresso era libero, e vediamo la seconda metà de Il fattore umano, con Alec Guinness, il più noioso film mai diretto (nonché l’ultimo) dal grande Otto Preminger. Ma eravamo a Gardaland, dove se una giostra non è quello che ti aspettavi, beh, c’è tutto il resto! L’hot dog che mangiamo ci sembra il migliore del mondo; ci passa accanto Monica Vitti, e per poco non sveniamo. Era il 1980. Sei anni dopo mollavo la divisa, e sul Lido ci sarei tornato ogni anno, fino a questa Venezia 74, che ha aperto i battenti il 30 agosto. Con un restyling, anticipo al lettore, che ha trasformato la Mostra in una prospettiva architettonica dal colore bianco accecante, grazie a una distesa di candide traversine di cemento intorno al Casinò e fino al Palazzo del Cinema, di cui rimane solo l’anacronistica ma buffa pensilina da sala cinematografica anni ’50 (l’ampliamento del Palazzo è appunto del 1955), che all’epoca i commentatori più snob avevano soprannominato “la fabbrica di pelati”, per la sua somiglianza con le analoghe strutture tipiche dei capannoni industriali. Quantomeno hanno coperto il “buco” praticato anni fa per installarvi il nuovo Palazzo del cinema: mai sorto, dopo gli scavi, a causa dell’amianto ritrovato sottoterra e quindi rimasto a cielo aperto per tre anni, per la disperazione degli addetti ai lavori, vertici della Mostra in testa. Almeno ci avessero buttato dentro i film che non valevano niente…
Una volta incontrai il conte Giovanni Volpi (nipote del fondatore), mentre dal roof del palazzo contemplava quel buco enorme tra il Palazzo e il Casinò, che deturpava il “suo” Lido, e gli venne da piangere. Al riguardo, Gian Luigi Rondi mi confidò: «Bastava che i progettisti s’informassero. Lì sotto l’amianto ce l’avevamo messo proprio noi della Mostra, quando ero Presidente della Biennale e dovevamo toglierlo dai tetti di Ca’ Giustinian (sede della Biennale sul Canal Grande, nda)».