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Black Lives Matter, tranne una. Quella di Spike Lee, l’afroamericano numero 1 nel cinema di Hollywood incredibilmente snobbato per Da 5 Bloods – Come fratelli, il suo film forse imperfetto ma debordante, travolgente, sincero. E, soprattutto, lucido come nessun altro sulla questione nera (di ieri e di oggi). Le sceneggiature a prova di Cencelli del politically correct valgono più del Cinema.
La sorpresa non è certo che questo potentissimo doc sia finito nella cinquina dei migliori documentari, pareva scontato (e doveroso). Ma lo straordinario lavoro del regista romeno Alexander Nanau è in lizza anche come miglior film straniero. Evviva: d'altra parte oltre che essere un lavoro di inchiesta pazzesco, è un’opera cinematograficamente potentissima, probabilmente il miglior film sul giornalismo dai tempi di Tutti gli uomini del Presidente.
Altro snobbato di lusso, il protagonista di Da 5 Bloods. Considerato il favorito molti mesi fa, è stato lasciato al palo. Incredibile: perché il suo monologo con lo sguardo alla cinepresa è una delle performance più appassionate dell’anno, e perché – a 68 anni – l’attore avrebbe meritato un riconoscimento istituzionale. Non è il giro di Spike: l’abbiamo capito.
È l'anno di Emerald Fennell. Dopo il successo della quarta stagione di The Crown, dove la nostra interpreta Camilla Parker Bowles, è arrivato il debutto alla regia, con un revenge movie che più MeToo non si può. Tutto giustissimo per questi tempi, fin troppo. Però è anche l'anno più anomalo di sempre per l'industry. E siamo felici delle due nomination al femminile per la regia, ma Chloé Zhao è un'altra cosa. E pensate che lo scorso anno Greta Gerwig non fu neppure candidata.
Niente “famo la Storia” per Sophia Loren. Che, a 86 anni, sarebbe diventata l’attrice più anziana mai candidata agli Oscar. Bastano le due statuette già incassate (per La ciociara e alla carriera), ma La vita davanti a sé del figlio Edoardo Ponti esiste solo perché c’è Sophia. E la rentrée da diva totale ma elegantemente autoironica (vedi gli shooting per vari magazine internazionali) avrebbe meritato una certificazione.
La favola dark di Matteo Garrone non è passata inosservata negli USA. E soprattutto non è passata inosservata la sapienza del nostro Made in Italy con le nomination a Massimo Cantini Parrini, il più grande costumista che abbiamo in questo momento in Italia, se andiamo oltre icone come Milena Canonero. E la candidatura per il miglior trucco e parrucco a Dalia Colli e al resto del team. Tutti in piedi sul divano.
In fatto di storie sull’identità etnica (per capirci), dentro Minari (su una famiglia coreana nell’America degli anni ’80), fuori One Night in Miami… A 50 anni appena compiuti e dopo il trionfo di Watchmen, Regina King sembrava destinata alla consacrazione come regista esordiente di questa “black origin story” (del movimento di Malcolm X e di tutto il resto, fino ad oggi). Nomination al non protagonista Leslie Odom Jr. e alla sceneggiatura non originale: ma Regina resta senza corona.
Foto: Patti Perret/Amazon Studios
Una canzone da Oscar (qualunque cosa significhi)? No, ma un divertissement che meritava una menzione. Nel one man (trash) show di Will Ferrell (con Rachel McAdams ottima spalla), la parodia della gara canora più assurda d’Europa funziona. Come la sua canzone dedicata all’Islanda, terra natale dei protagonisti. Per una volta vince l’ironia, e non le accuse di cultural appropriation: miracolo!
Sembrava l’anno di Zendaya e invece, dopo la mancata nomination ai Golden Globe per Malcolm & Marie, arriva anche la “trombata” dell’Academy. Atteso come prima opera d’autore dell’era pandemica, il film di Sam Levinson non ha trovato consensi unanimi. E forse anche la sua protagonista/musa ne ha risentito. Ma la carriera nel cinema della nostra è appena iniziata (e bene): si rifarà.
Foto: Dominic Miller/Netflix
Pare quantomeno schizofrenica la nomination di Glenn sia ai Razzie, i premi al peggio del cinema, che agli Oscar. L'intenzione di mirare alla Awards Season era chiara da parte del regista Ron Howard, che però è finito nella cinquina solo dei primi. Ed vero che questo melodrammone red neck lo tiene in piedi Glenn più di Amy Adams, così come è certificato che l'Academy si sente in colpa perché non ha mai premiato Close nonostante sette nomination (se escludiamo l'ultima). Ma per Elegia americana no, dai.
Non è un Oscar per vecchi. Un’altra veterana del grande schermo resta esclusa dalle nomination, nonostante una prova da maestra. Ovvero Ellen Burstyn, data per sicura come “supporting” per Pieces of a Woman. Già vincitrice di una statuetta nel ’75 per Alice non abita più qui di Scorsese, è rimasta vittima del “caso Shia LaBeouf” che ha travolto l’intero film. Resta solo la candidatura (obbligatoria) alla protagonista Vanessa Kirby. Per il resto, nemmeno un padrino di lusso come lo stesso Marty, produttore esecutivo, ha potuto nulla, contro i nuovi tribuni.
Non è facilissimo che l’Academy metta un regista non americano in cinquina. E invece il danese Thomas Vintenberg ce l’ha fatta. Si parla da tempo del suo Un altro giro, dramma dolceamaro sull’alcolismo starring il conterraneo Mads Mikkelsen. E la candidatura ci sta. Ma forse ci stava più quella a Mads come attore.
Foto: Henrik Ohsten
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