L’effetto what the fuck
Lo ha dichiarato qualche tempo fa lo stesso Jake Gyllenhaal: nemmeno lui ha capito davvero Donnie Darko, ma pensa che il film non sia pensato per essere capito. È sci-fi sui viaggi nel tempo? Horror psicologico? Coming of age? Film sulla malattia mentale? Fantasy da incubo? Commentary della società e della politica americana à la Velluto blu o American Beauty (è ambientato nel 1988, all’epoca dello scontro elettorale tra Dukakis e Bush Senior)? Probabilmente tutto queste cose insieme, e allo stesso tempo nessuna. Tra indefinibilità di genere e quel mood filosofico con relativo effetto what the fuck che lo percorre dall’inizio alla fine, a riassumere uno dei motivi del successo del film è lo stesso Gyllenhaal in un post pubblicato oggi su Instagram: «Grazie a tutti i fan che sono venuti da me nel corso degli anni con quello sguardo disorientato per chiedermi: “Ma cos’è Donnie Darko? Di cosa parla?”. Altri 20 di questi anni a confondere le persone».
Jake Gyllenhaal che diventa “grande”
Sempre nello stesso post celebrativo Jake scrive: «Donnie Darko è un film che ha cambiato la mia vita e la mia carriera ed è stato surreale vedere questa storia avere un’altra vita grazie a un nuovo pubblico e a nuove generazioni, eppure quello che Donnie ha detto a Roberta Sparrow è ancora vero: “C’è ancora così tanto da aspettarsi”». L’attore, allora 21enne, si stava affacciando alla scena quando ha girato il film, subito dopo essere stato protagonista di Cielo d’ottobre, in cui interpretava il figlio di un minatore con il sogno di costruire missili spaziali come lo Sputnik. Ma è con la performance clamorosa nei panni di Donnie, uno studente che soffre di schizofrenia paranoide, che Jake diventa davvero “grande”. Il suo sguardo minaccioso e quasi posseduto ogni volta che si ribella violentemente alle ipocrisie e al conformismo del mondo adulto, magari con in mano un’accetta, ti rimane addosso. «La distruzione è una forma di creazione», dice il protagonista. E così Gyllenhaal è diventato il weird hero per eccellenza, prima che fosse figo definirlo così.
Frank, aka il coniglio gigante
I terrori, le ansie, gli incubi, tutte le cose che tormentano Donnie sono incarnate da un coniglio deforme e demoniaco alto un metro e ottanta di nome Frank che profetizza la fine del mondo in “28 giorni, 6 ore, 42 minuti e 12 secondi”. Pare che il personaggio sia stato ispirato al romanzo distopico di Richard Adams Watership Down, in cui dei conigli antropomorfi si costruiscono una nuova esistenza dopo che il loro habitat è stato distrutto. Donnie crede di dovere la vita a Frank, dopo che lui l’ha fatto uscire dalla sua stanza proprio quando il motore di un aereo stava precipitando sulla casa dei suoi genitori. E così il protagonista diventa uno strumento di distruzione nelle mani di Frank. Ma il coniglio è una sua proiezione? Di certo da vent’anni è una delle maschere che a Halloween vanno più forte. E quando un villain diventa un costume, è già storia della cultura pop.
La storia distributiva maledetta
Dopo la proiezione di Donnie Darko al Sundance Film Festival nel 2001, il regista Richard Kelly era convinto che la sua opera prima sarebbe uscita direttamente in home video a causa dello scarso riscontro ricevuto. Ma per fortuna che c’è Drew Barrymore tra i protagonisti, nei panni dell’insegnante Karen Pomeroy: la sua società, Flower Films, ha deciso di finanziare il film. E anche Christopher Nolan, che aveva da poco esordito con Memento, ha fatto la sua parte, convincendo la società di produzione Newmarket a distribuire Donnie Darko. Ma sfiga volle che il film debuttasse il 26 ottobre 2001, e cioè 45 giorni dopo l’11 settembre. E dato che un incidente aereo è un elemento di rilievo nella storia, ovviamente il marketing non riuscì a fare molto. Donnie Darko andò quindi maluccio al botteghino, con 500mila dollari di incasso negli USA. A livello internazionale, invece, riuscì ad arrivare oltre i 7 milioni di dollari. Ma nel corso di qualche anno è diventato il cult generazionale degli anni 2000.
La colonna sonora
Lo score, dell’allora compositore esordiente Michael Andrews, è minimale nella sua sovrabbondanza di anti-melodie al piano, ma perfettamente cucito per esaltare il mood e i momenti clou del film. Anche la colonna sonora è scelta accuratamente per accompagnare la storia, fissando il periodo in cui è ambientato, l’autunno del 1988, tra rock e pop del tempo. Le canzoni però fanno anche da potente e significativo contraltare al racconto: vedi The Killing Moon di Echo and the Bunnymen, Head Over Heels dei Tears for Fears, Under the Milky Way dei Church e, soprattutto, la dolentissima versione di Gary Jules di Mad World, altra hit dei Tears for Fears, vera summa musicale ed emozionale di Donnie Darko.