Quando a Cannes 2019 è stato presentato Rocketman, il biopic su Elton John, le aspettative erano altissime. Solo qualche mese prima Bohemian Rhapsody – un’altra biografia musicale, incentrata su Freddie Mercury – aveva raggiunto un successo di botteghino sorprendente, raccogliendo 911 milioni di dollari su scala globale. Paramount Pictures si era assunta un bel rischio con Rocketman, investendo 41 milioni di dollari di budget e scommettendo su un attore che non era un nome popolarissimo (Taron Egerton). Ma l’exploit di Bohemian Rhapsody, per il quale il protagonista Rami Malek aveva vinto un Oscar come miglior attore, lasciava presagire un esito altrettanto roseo.
Ma c’era una differenza sostanziale tra i due film: se in Bohemian Rhapsody l’omosessualità di Mercury restava in superficie, Rocketman era, dopo molti anni, il primo titolo prodotto da un grande studio a ritrarre una storia d’amore (e di sesso) gay sul grande schermo in modo del tutto esplicito. E, tristemente, è stato proprio quello a diminuire la possibilità che il film ottenesse lo stesso successo del predecessore.
Rocketman non è mai uscito in Cina, dove l’omosessualità non è legalmente riconosciuta e dove i film a tematica gay sono costantemente osteggiati dai distributori (per contro, Bohemian Rhapsody è uscito con giusto qualche taglio che non alterava la storia). E Rocketman è stato vietato anche in Medio Oriente. Dopo le ovazioni a Cannes, dove è andato in scena (anzi, in spiaggia) persino un duetto fra Elton John e Taron Egerton, il film ha incassato in tutto il mondo solo 195 milioni di dollari. Un risultato ben al di sotto delle aspettative che non è passato inosservato: questo settembre uscirà negli Stati Uniti Bros, una commedia romantica con Billy Eichner nonché il primo film prodotto da una grossa major a mostrare scene di sesso gay sullo schermo dopo più di tre anni.
Se Hollywood pubblicamente lancia continui segnali di supporto ai diritti della comunità lgbtq+, le cronache correnti ci raccontano una storia diversa. Di più: stando ad alcuni episodi recenti, l’industria dell’intrattenimento sembra aver fatto addirittura dei passi indietro. Questa primavera, la Disney si è attirata molte critiche per aver scelto di non rilasciare un comunicato di condanna del decreto legge promulgato in Florida e ribattezzato Don’t Say Gay (quello che prevede che gli insegnanti della scuola pubblica non facciano nessun tipo di riferimento all’orientamento sessuale o all’identità di genere davanti agli studenti, ndt) e per avere invece finanziato politici che lo sostenevano. Il gigante dello streaming Netflix è stato preso di mira per gli speciali di stand-up di Dave Chappelle e Ricky Gervais, in cui sono presenti battute sulla comunità transgender. E, sul grande schermo, i personaggi gay continuano ad essere figure di contorno o di sfondo (se non del tutto tagliate dai film, quando possono provocare un rischio finanziario troppo alto).
Molte di queste decisioni dipendono dal bisogno di entrate internazionali. Solo la settimana scorsa, è stato riportato che la Disney avrebbe chiesto alla Pixar il taglio di un innocuo bacio tra due donne lesbiche (una coppia per di più sposata) da Lightyear – La vera storia di Buzz. È stato solo dopo che alcuni dipendenti della Pixar hanno espresso il loro dissenso tramite una lettera aperta che la società “madre” ha deciso di tornare sui propri passi… col risultato che Lightyear è stato bandito in Arabia Saudita, Emirati Arabi e Malaysia. All’inizio di quest’anno, dall’edizione di Animali fantastici – I segreti di Silente destinata al pubblico cinese sono stati tagliati sei secondi dal dialogo in cui viene svelata la relazione sentimentale tra Albus Silente e Gellert Grindelwald. La Warner Bros. ha difeso la scelta spiegando che «i tagli di certe battute presenti nel film sono dovute alle circostanze» e che «si tiene conto delle differenti sensibilità di certi mercati locali». «La Cina era il secondo maggiore mercato del mondo prima dello scoppio della pandemia», spiega Paul Dergarabedian, analista di Comscore, «e quello che si è risollevato prima, quando invece quello nordamericano ancora soffriva a causa del Covid. La forza del box office cinese fa dunque sì che i film di Hollywood vengano modificati per quel mercato. In generale, oggi le campagne promozionali cambiano a seconda del Paese in cui i titoli vanno lanciati».
La Cina può essere dunque considerata uno dei motivi per cui i principali Studios – Paramount, Disney, Universal, Warner Bros. e Columbia Pictures – ormai fanno uscire un film con un protagonista dichiaratamente gay ogni anno bisestile o quasi. Chris Fenton, co-produttore di Iron Man 3, ha scritto il saggio Feeding the Dragon: Inside the Trillion Dollar Dilemma Facing Hollywood, the NBA, & American Business, ed è da sempre una delle voci più critiche a proposito di questo inchinarsi, da parte di Hollywood, di fronte alle richieste della censura cinese. Fenton cita Philadelphia (1993) e Dallas Buyers Club (2013), due film incentrati su personaggi che morivano di AIDS che hanno contribuito a cambiare la percezione della malattia presso la grande platea statunitense, come esempi della capacità dell’industria di produrre un vero cambiamento culturale e sociale. Ora, sostiene, Hollywood dovrebbe esercitare quel potere su scala globale: «Mi piacerebbe che l’industria usasse la sua forza per promuovere l’accettazione dei temi lgbtq+ su scala internazionale. Se Hollywood vuole davvero cambiare la sua narrazione, deve farlo a livello globale. Ma è pronta a farlo, se il rischio è quello di voltare le spalle alla Cina?».
Se la strada scelta fosse quella, significherebbe non vedere più semplici bacetti omosessuali facilmente sacrificabili al montaggio finale, come già accaduto in Star Wars – L’ascesa di Skywalker e La bella e la bestia, ma vere e proprio storie incentrate su personaggi queer che sarebbero impossibili da tagliare dal cut finale. Spider-Man: No Way Home costituisce, per altri versi, un notevole precedente in questo senso. Il film utilizza la Statua della Libertà come sfondo di tutta la terza parte. Quando la Cina ha chiesto che fosse rimossa, era di fatto impossibile per la Sony ottemperare a quella richiesta, il che ha dunque costretto la Cina a prendere il film così com’era, oppure rifiutarlo in toto (la Cina, ovviamente, ha finito per farselo andare bene).
La crescente dipendenza dal mercato internazionale potrebbe spiegare perché la rappresentazione del mondo lgbtq+ sullo schermo stia regredendo, invece che progredire. Prendete la pionieristica commedia della Paramount In & Out (1997), in cui veniva mostrato un bacio tra due uomini gay interpretati da Kevin Kline e Tom Selleck. Il film incassò 64 milioni di dollari negli Stati Uniti, un esito più che soddisfacente per l’epoca, considerato che «allora non si dava tutta questa importanza al risultato globale», come osserva Dergarabedian. Negli anni successivi, quando gli Studios hanno iniziato a cercare grandi incassi anche all’estero relegando così le storie a tema gay ai margini, a occupare quella fetta di narrazione sono arrivati i film indipendenti; e, di tanto in tanto, qualche titolo finanziato da grosse case di produzione ma a budget ridotto come I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee e Moonlight di Barry Jenkins, che hanno incassato rispettivamente 178 e 65 milioni di dollari, oltre ad aver vinto ciascuno parecchi Oscar. Ma anche il territorio del cinema indie presenta non pochi ostacoli. Nel 2018, il teen drama La diseducazione di Cameron Post, starring Chloë Grace Moretz, ha vinto il Gran premio della giuria al Sundance Film Festival, un riconoscimento che solitamente scatenava una vera e propria guerra per i diritti tra i distributori. Ci sono invece voluti due mesi prima che la FilmRise, una società piuttosto piccola, ne acquistasse i diritti. Molti distributori avevano espresso il loro scetticismo riguardo alle prospettive commerciali di una storia di formazione a tema lesbico.
Se la censura (e l’autocensura) sono da sempre una questione cruciale nel cinema, non si può però dire che la tv ne sia immune. Serie a tematica gay sono altrettanto sottoposte a varie forme di taglia-e-cuci, prima di essere distribuite su certi mercati stranieri. Quando piattaforme cinesi come Tencent hanno iniziato a mandare in onda la prima stagione di Friends lo scorso febbraio, lo storyline sull’ex moglie di Ross, che veniva presentata come lesbica, è stata eliminata. Sempre lo scorso febbraio, un’indagine di GLAAD (organizzazione no-profit di attivismo lgbtq+, ndt) intitolata Where We Are on TV 2021–2022 metteva Netflix al primo posto tra i servizi di streaming in quanto a inclusione di personaggi omosessuali nelle produzioni originali, ma al tempo stesso condannava la piattaforma per «lo spazio dato a contenuti anti-lgbtq+», con riferimento al caso sollevato dal monologo di Dave Chappelle (a favore del quale si è però schierata un’altra parte della comunità queer, che ha sempre sostenuto la libertà d’espressione nei confronti del comico, ndt).
Ma, nella recente storia di Hollywood, la mossa più controversa resta quella della Disney di fronte al già citato Don’t Say Gay Bill. Persino Abigail Disney – regista ed erede delle fortune della Casa di Topolino, diventata negli anni un’attivista e una delle voci più critiche circa l’ipocrisia e la disparità all’interno della società – ha dichiarato che quel passo falso è stato l’esempio lampante di quanto Hollywood scelga sempre di far prevalere gli interessi economici sulle posizioni socio-culturali che va sbandierando. «A guidare Hollywood è soprattutto la paura di indebolire i propri bilanci, più che il sostegno alle minoranze che va rivendicando da anni», accusa la nipote del fondatore della major, Roy Disney. «Sono due valori totalmente contrapposti. Ma, quando il gioco si fa duro, è sempre la lealtà verso i conti economici ad avere la meglio. Ed è davvero una vergogna. Non è che Hollywood non sia gay friendly: è che è molto più amica dei soldi».