In tutte le kermesse musicali che si rispettino può capitare un momento in cui la realtà si piega su sé stessa e l’assurdo diventa la nuova normalità. È successo e succederà ancora. Ma, in occasione della finale del San Marino Song Contest 2025, quel momento – che durerà per tutta la serata – è arrivato prima ancora che iniziasse la diretta; quando, scorrendo la scaletta dell’evento trasmesso su RaiPlay, abbiamo realizzato che stavamo per assistere a una competizione in cui una boy band di svedesi perlopiù neri, dalle movenze k-pop, gareggerà contro un gruppo di punk rocker di ispirazione celtica ma di provenienza dolomitica il cui leader emanava evidenti vibes da Damiano David, se Damiano David avesse mai avuto come piano B la scuola sci. E abbiamo compreso che San Marino non prende parte al mondo dello spettacolo come gli altri stati sovrani: San Marino lo osserva da una distanza di sicurezza, poi lo rifrange in una versione tutta sua, dove l’internazionalismo e il nonsense convivono in un equilibrio precario, ma indistruttibile. Un po’ come la sua stessa esistenza di nazione fragile ma inamovibile, incastrata tra le montagne e la sua storia, geograficamente microscopica ma cronologicamente estesissima; accerchiata da province, regioni, nazioni ma ostinatamente indipendente.
La minuscola repubblica si è trasformata per una notte nel teatro del più assurdo esperimento musicale dell’anno. Sul palco di Dogana si sono affrontati 10 concorrenti frutto di una selezione tra le più lunghe e complesse che regolamento di competizione canora abbia saputo cavillare (1200 candidati da 48 Paesi), 1 sanmarinese (la quota riservata ai padroni di casa) e 9 big liberamente cooptati dal direttore artistico del Contest (la quota riservata a ex concorrenti di Ora o mai più, a scarti vari di Sanremo e a Gabry Ponte).
Alcuni partecipanti hanno brillato più fulgidamente (King Foo? Elasi? Di certo Boosta e di certo Taoma, il cui penultimo posto non gli ha reso giustizia); altri meno. Tutti hanno rinunciato all’Auto-Tune, in un’arena canora dove l’autenticità vocale ha trionfato sull’artificio tecnologico. Il primo ospite d’onore, l’inossidabile Al Bano, ha dato il la, dichiarando: «Io ho un Auto-Tune interiore», indicando con fierezza la sua testa. Questo gesto ha innescato una riflessione più ampia: nella società musicale odierna, l’Auto-Tune può essere visto come metafora delle maschere che indossiamo per conformarci alle aspettative altrui, nascondendo le nostre imperfezioni e unicità. Ieri sera i concorrenti hanno accettato di esibirsi senza filtri, abbracciando le proprie vulnerabilità e celebrando l’essenza dell’essere umano, a partire dai suoi difetti. Il risultato è stata una performance corale che ha ricordato l’importanza di accettare e valorizzare la nostra vera voce, senza cedere alla tentazione di uniformarci a standard artificiali. E possiamo confermare che, nel corso delle esibizioni, nessuna nota è stara particolarmente maltrattata, con la trascurabile eccezione del momento in cui Teslenko, l’ucraino vestito da cavaliere dello zodiaco in giacca da camera, non è stato temporaneamente posseduto dalla Regina della notte del Flauto magico.
Il San Marino Song Contest sia considerato, allora, non solo come una backdoor nel codice normativo dell’Eurovision, ma anche come un atto di resistenza culturale: la conferma che la Repubblica più antica e trascurabile del mondo può ancora permettersi il lusso di decidere per sé, di battere i suoi euro, di emettere e donare a tutti i partecipati francobolli grandi come una pochette e, perché no, di spedire un ripescato italiano dritto all’Eurovision. Il suo ripescato, anche se sanmarinese quanto la pizza hawaiana.
È vero che è più facile che Luisa Corna sia cooptata dal direttore artistico saltando le apposite selezioni nell’Auditorium Little Tony che un sanmarinese entri nel regno dell’Eurovision. Ma San Marino sa godersi il suo giorno di gloria, eccome. Se, nel ‘600, San Marino era in grado di sopravvivere alle guerre tra gli Stati italiani, oggi è perfettamente in grado di sopravvivere all’industria musicale con una selezione di talenti che sembra il catalogo di un’agenzia di spettacolo per villaggi turistici non egemoni. Ma, ça va sans dire, libero contest in libero Stato.
Il resto è tutto un gioco di sapienti equilibri. La scaletta che fa sembrare Sanremo il Festival di Salisburgo; Flora Canto che fa sembrare Francesco Facchinetti un conduttore vero (perfino quando fa un monologo-djsplaining rivolto alla figlia sulle difficoltà dell’essere donna, nel giorno della festa della donna); il palco del Teatro Nuovo che, a differenza di quello dell’Ariston (che è piccolo ma sembra grande), è piccolo ma sembra piccolissimo e, per inciso, ha anche una pessima acustica, soprattutto per gli applausi, che si sentono, ingiustamente, quasi solo per Gabry Ponte e, giustamente, per l’ospitata di una Rappresentante di lista in stato di grazia.
Non si può non provare un affetto sincero per l’operazione del SMSC. Perché San Marino, con il suo microcosmo improbabile e la sua identità fieramente a sé stante, ci ricorda che la musica – e forse anche la vita – non è solo un ideale, ma anche una pratica e, in particolare, la pratica del coraggio di continuare a suonare. Un inno alla possibilità di partecipare nonostante tutto, in un angoletto di mondo in cui l’intonazione e l’audacia vanno a braccetto con il kitsch e la pura incoscienza. È per questo che, tra un cambio palco confuso e un omaggio a un classico degli anni ‘80 cantato in un inglese che non diciamo farebbe tremare Shakespeare, ma perfino ringalluzzire Renzi, ci scopriamo a tifare per tutti i concorrenti del SMSC indistintamente, e per San Marino. Perché se c’è una disciplina in cui San Marino non ha mai avuto bisogno di ripassi da nessuno è esistere.
San Marino è abituato a navigare tra le pieghe della storia con l’abilità di un Tayllerand più volte reincarnato. Quando Napoleone invase l’Italia i sanmarinesi si guadagnarono il rispetto dell’Imperatore con un misto di diplomazia e sottili argomentazioni strategiche, ottenendo non solo di mantenere la loro indipendenza, ma addirittura una proposta di espansione territoriale (gentilmente declinata per non creare scompiglio). Secoli dopo, la stessa attitudine si traduce in un festival in cui un dj torinese può rappresentare San Marino a Basilea con un pezzo dedicato all’Italia, teoricamente, senza aver mai messo piede sul Titano, prima di ieri sera.
Il SMSC è un capolavoro di ingegneria regolamentare, un esperimento geo-musicale, un trattato vivente sulla flessibilità del concetto di rappresentanza. E, cosa non da poco, è anche una delle cose più divertenti che possano capitare nel panorama artistico europeo. Perché, alla fine, mentre un concorrente esegue una ballata epica con un testo tradotto da Google Translate e i presentatori cercano di prendere tempo per un problema tecnico che nessuno si premura di risolvere, ci si rende conto di un ulteriore fatto. San Marino è la prova vivente che la musica, come il diritto internazionale, è solo una questione di interpretazione. E, per citare il testo del trionfatore della serata: “Lasciateci ballare / Con un bicchiere in mano”.
A proposito, tra drammi pop, esperimenti elettronici, tirate vanamente strappalacrime e momenti di puro delirio sonoro, si è arrivati alla proclamazione del vincitore. Se non avesse vinto proprio Gabry Ponte, a quel punto, avremmo sogghignato che, date tutte queste premesse, il nome e l’identità del vincitore del SMSC sarebbero stati solo dei dettagli. Ma la vittoria di Gabry Ponte al SMSC con Tutta l’Italia è più che una nota a piè di pagina nella non ricchissima cronaca musicale di San Marino, ma un riflesso nitido dei tempi che corrono, più in generale, nel Bel Paese che gli sta attorno. In un’epoca in cui l’identità italiana viene costantemente rinegoziata tra tradizione e modernità, quale scelta estetica più di quella operata da Ponte – fondere elettronica e sonorità popolari – può rappresentare meglio l’italiano medio che danza tra passato e futuro, con un occhio al folklore e un orecchio al beat sintetico?
Il fatto è che a concorrere accanto a lui, a Basilea, sarà Lucio Corsi; il quale, con l’estetica minimalista e la poetica intimista che si ritrova, è di fatto la nemesi pontina. Mentre Gabry incarna l’italiano festaiolo, amante delle piazze gremite e delle sagre paesane rivisitate in chiave EDM, Corsi rappresenta l’intellettuale sensibile, più incline a una serata in un caffè letterario che in una discoteca all’aperto. Questa dicotomia rispecchia perfettamente la polarizzazione culturale e politica dell’Italia odierna, divisa tra l’ostentazione e la riflessione, tra la normalizzazione del populismo e la demonizzazione dell’élite culturale.
(A questo aggiungete Tommy Cash con la sua Espresso macchiato: una caricatura esagerata dell’italianità vista attraverso lenti, in questo caso, estoni. La sua rappresentazione dell’Italia, fatta di cliché come il caffè, la malavita e la pasta lunga, ha suscitato reazioni contrastanti: da una parte l’indignazione di chi si sente offeso da stereotipi stantii, dall’altra l’ilarità di chi riconosce l’assurdità della caricatura. Ma, in fondo, l’Italia di Gabry Ponte e quella di Tommy Cash non sono poi così diverse: entrambe giocano con i luoghi comuni ma, mentre Ponte lo fa dall’interno, celebrando un’italianità festosa e unificante, Cash lo fa dall’esterno, esagerando fino al grottesco).
La vittoria di Tutta l’Italia al SMSC e la sua prossima proposta all’Eurovision costituiscono quindi non solo la conferma di un successo musicale italiano per sé, ma anche, potenzialmente, una possibilità in più di affermazione, in ambito internazionale, dell’altra faccia della medaglia politica, e non solo musicale, dell’Italia rappresentata e rappresentabile da Corsi. In un’Europa in cui le identità nazionali sono messe alla prova, l’Italia (giacché i giurati del SMSC sono più italiani che sanmarinesi) sceglie di presentarsi con un binomio che esaspera i contrasti tra i due poli culturali che la dividono. E mentre Corsi ci avrebbe ritratto solo con introspezione e profondità artistica, Ponte giunge così a fargli da contrappeso, invitandoci a danzare sulle note di un’Italia che, nonostante tutto, nonostante sé stessa, continua a cantare e a sorridere. Solo così saremo davvero presenti all’Eurovision con Tutta l’Italia.
Ed è molto significativo che, mentre il campione espresso dagli italiani colti ed emotivi arriva all’Eurovision per la più convenzionale via sanremese (seppure grazie all’abdicazione di Olly), l’asso degli italiani a cassa dritta vi giungerà per mezzo della porta sul retro offerta dalla via sanmarinese.