Non guardo il Grande Fratello dai tempi della sciarpona di Katia Pedrotti, figuriamoci adesso che siamo abituati allo streaming di ogni cosa e invece lui ancora ti costringe ai tempi e alle pause pubblicitarie della tv del Novecento (ma con la durata fluviale della tv degli anni duemila, dove i programmi di prima serata raccattano punticini di share solo perché vanno avanti fino alle tre del mattino). Non lo guarderò nemmeno ora che è – nella versione Vip – scoppiato il presunto caso Alberto Tarallo, e non ho guardato la puntata in cui il presunto caso Alberto Tarallo è scoppiato. Meglio: ho visto solo i fotogrammi incriminati in cui Adua Del Vesco e Massimiliano Morra (li avete scoperti solo ora? Molto male) facevano appunto esplodere il sospetto merdone, ma anche quelli erano inutili. (Questo è invece un problema dei giornali degli anni duemila: spacciano momenti del tutto irrilevanti per “video choc”.)
In generale, non guardo la tv da anni, e non per pose del tipo “non ce l’ho” (anche se è vero: non ce l’ho), ma appunto per quel discorso di prima dei tempi che son cambiati, e della fruizione, e del medium, ma mi fermo subito, non siamo mica a una lezione di Scienze della comunicazione. Ho guardato però a tempo debito tutte le fiction e i film prodotti da Tarallo, cioè L’onore e il rispetto, Il peccato e la vergogna, Sangue caldo, So che ritornerai (uno dei miei preferiti, chi mi conosce lo sa), eccetera eccetera. Era una stagione di fiammeggiante kitsch generalista oggi per forza di cose tramontata: nell’epoca corrente Gabriel Garko e Manuela Arcuri non avrebbero più senso alcuno, il kitsch è certificato prodotto d’autore, i critici che demolivano le produzioni di Tarallo danno cinque stellette alle kitschissime serie di Ryan Murphy (su Ryan Murphy ci torneremo).
Alberto Tarallo sarebbe oggi accusato dai vip-gieffini (i commentatori almeno credono che essi si riferiscano a lui, quando parlano di tale “Lucifero”) non tanto d’essere l’Harvey Weinstein italiano, come molti giornali hanno scioccamente titolato, bensì il produttore che costringeva i suoi attori a nascondersi quand’erano gay, e li ricattava, inventava servizi patinati su affaire inesistenti, li teneva sotto scacco in cambio di soldi, fama, sceneggiati di successo: insomma, il produttore che faceva il produttore. Questo detto in estrema sintesi.
La Ares Film, da lui guidata e – si legge in giro – definitivamente sbaraccata per bancarotta poco prima del lockdown, aveva, come la MGM dei tempi gloriosi, il suo parco-divi di riferimento (appunto Garko e Arcuri, e Del Vesco e Morra, e Sabrina Ferilli, Giuliana De Sio, Francesco Testi, Alessandra Martines, Valeria Milillo, Vincent Spano, Cosima Coppola, pure revenant come Anita Ekberg e Bo Derek), e soprattutto lo sceneggiatore (una volta la parola showrunner non si usava) che era il vero architetto di quelle magnifiche impalcature narrative: Teodosio Losito, ex modello e cantante per molti compagno dello stesso Tarallo, morto suicida un anno fa.
Sarebbe una saga strabordante e straziante a sé, tanto che anche prima, negli anni d’oro della Ares Film, tutti si sono concentrati su Losito, imprendibile, misterioso, pochissime foto in giro se non nessuna, e nessuna intervista. Ma Tarallo era ancor più Salinger di lui, nemmeno una pagina Wikipedia ad attestarne trascorsi e percorsi, solo la vulgata del sottobosco romano, una specie di storia omerica, ma con Pamela Prati al posto di Calipso. Era stato – riportano le cronache dal generone – attore (quasi sempre en travesti) in film scollacciati anni settanta, e poi gestore di locali per omo costretti a vivere nel buio (uno con un nome bellissimo: L’Alibi), e simpatizzante craxiano, editore pornosoft, produttore di cinema geneticamente stracult (Cattive ragazze, primo e – purtroppo – unico film da regista di Marina Ripa di Meana: il sottobosco vuole che però a dirigerlo sia stato lo stesso Tarallo, come Guy Ritchie con Sacro e profano di Madonna), fino all’onore e al rispetto guadagnati con L’onore e il rispetto (pardon), e tutti gli altri successi Mediaset.
Il presunto caso Tarallo certamente andrà avanti, e io non guarderò nulla, non leggerò nulla, non seguirò nulla. Vorrei invece vedere una kitschissima serie di Ryan Murphy su questa storia, come la sua Hollywood che politically-correttamente ha riscritto la Golden Age. Ma questa sarà una fiction all’italiana, si chiamerà Quarticciolowood, che è il quartiere dove aveva sede la Ares Film, ci saranno anche qui agenti che costringono gli attori a non fare coming out (Cristopher Leoni – andate a googlare – al posto di Jim Parsons: va bene uguale?) e dive appassite che diventano registe di successo (vada per Ángela Molina, altra habituée). E finirà benissimo: una coppia d’attori maschi e innamorati fugge dal set ed entra nella casa del GF ovviamente Vippissimo anche se nessuno li conosce, e vince insieme quell’edizione, e io sarò sul divano – con la sciarpona di Katia Pedrotti al collo – a dire che sì, è tutto bellissimo, va tutto benissimo, ma com’era bello il Novecento, quando non c’era nessun Lucifero, quando avevamo l’illusione che ogni peccato e ogni vergogna fossero veri.