Avvertenza: qui non parleremo di DOC – Nelle tue mani, di Blanca (ehm, forse a un certo punto e in qualche modo sì), di Odio il Natale, di Che Dio ci aiuti, di social o delle performance da ballerino e showman a Ballando o Boomerissima, ma – brace yourselves – di Pierpaolo Spollon sul palco. E in libreria. Perché capita rarissimamente che un neodivo della serialità generalista decida di darsi al teatro (di solito è il contrario, dal sipario magari si nasce e la tv è un traguardo, foriero di popolarità e – buttala via – stabilità economica). E spesso, nel caso, è per darsi un tono, per fare un po’ l’intellò, magari dire nelle interviste che “nella mia vita c’è anche il teatro” fa figo e dona all’istante quell’aura di “artista” che non bastano i milioni di spettatori di un fenomeno tv a regalare.
Ecco, Spollon invece lo fa perché ha troppe cose da dire (chi l’ha mai intervistato, SA) e ha bisogno di più posti dove dire tutte quelle cose, che sennò esploderebbe per quanto veloce pensa e per tutto quello che sente. E ha bisogno di contatto, di guardare in faccia la sua Twitter gang bang e chi lo segue, di cazzeggiare insieme. Sì, cazzeggiare resta la parola chiave, ma sempre intelligentemente, non a caso Spollon nelle interviste cita spesso Woody Allen: “Il vantaggio di essere intelligente è che si può sempre fare l’imbecille, mentre il contrario è del tutto impossibile”.
E perché non farlo proprio in un teatro, luogo mitologico d’incontro (che per lui rimane la parola chiave, visto anche che la sua fama è scoppiata durante il lockdown) tra un attore e le persone, tra un interprete e il suo pubblico, dove però l’interprete di cui sopra non si può più nascondere. Pierpaolo che non si può nascondere lo sa e decide di fare all in, parlando addirittura del suo privato, che aveva finora comprensibilmente e intelligentemente mantenuto tale. Lo spettacolo che sta portando nei teatri dall’autunno scorso (lo so, ne scrivo con colpevole ritardo, ma c’è un motivo, ci torniamo) si chiama Quel che provo dir non so, un one-man-show che è la quintessenza della poetica spolloniana (featuring Matteo Monforte, quello che suonava e cantava “Grazie Signore grazie” a Zelig, per darvi una coordinata pop e cazzara, ma anche autore per diverse trasmissioni e personaggi, vedi Pregiudizio Universale, il monologo di Maurizio Lastrico alle Iene. Se Spollon ora ha quell’accento genovese è colpa/merito suo; la regia invece è di Mauro Lamanna).
E allora “quello che lavora con Argentero” (la gag che si è inventato è irresistibile) parla di emozioni, il nucleo del mestiere dell’attore, le sue e quelle degli altri, che non sono mai da poco – anzi, che spesso manco sappiamo identificare e definire – in un modo che più à la Spollon non si può, tra picchi di autoironia altissimi (il senso di colpa, ad esempio, corrisponde a un incidente avvenuto nella doccia del campeggio da bambino, e non dico altro) a momenti da lacrimuccia (quando racconta un episodio particolare con uno dei suoi figli). E poi ovviamente ci sono mamma Gianna e papà Lucio (che ieri sera a Padova avranno forse avuto modo di vederlo finalmente in scena), civile dell’esercito lei, commissario di polizia lui, che ogni volta che è uscita un’intervista di Pierpaolo probabilmente avrebbero voluto darlo in adozione. C’è anche un grande schermo, dove Spollon mostra un bizzarro scambio di messaggi con una fan (?) e dove, conoscendolo, nelle prossime date già vedo proiettati i commenti di sua madre dopo l’exploit “a casa”. Signora, le sono vicina.
Ma Spollon parla anche di De André, Vasco Rossi & C. come dei suoi primi psicologi e canta pure (certo, dopo Karaoke Night è tutto in discesa). Sempre nella convinzione che il ridere di se stessi (con pennellate di surreale e stravagante, c’è qualcosina di Cochi e Renato) elimini le barriere e unisca le persone. A proposito: di vedere signorine e signore scatenate me lo aspettavo, ma mi ha stupito sentire padri, mariti e fidanzati ridere a crepapelle in platea. Il problema è che ora a Pierpaolo ora tocca eliminare #maiunagioia dagli hashtag in pronta digitazione. Al limite può convertirlo in #tuttononbenissimo, che poi è il titolo del libro legato allo spettacolo.
E qui torniamo all’inizio. Capita invece sempre più spesso che ormai CHIUNQUE scriva libri, che abbia cose da dire o no, vuoi perché le case editrici sono continuamente alla ricerca di contenuti e personaggi “che vendano”, vuoi perché tutti pensiamo di avere cose interessanti da dire (spoiler: non è così). Posso immaginare quante volte abbiano chiesto a Pierpaolo di scrivere un romanzo. E so che non ha voluto farlo prima di avere davvero qualcosa da dire, un progetto che avesse un senso nel suo percorso. Tutto non benissimo è un romanzo legato a doppio filo al suo spettacolo ed è il primo libro della collana “Finzione scenica” di Ribalta Edizioni, la nuova casa editrice nata nel 2024 come sezione editoriale della Stefano Francioni Produzioni Teatrali, che – sì – ha prodotto anche lo show. Indovinate: uscito il 10 maggio, solo con le vendite online il romanzo è alla prima ristampa. E oggi Pierpaolo lo presenterà al Salone del Libro di Torino.
C’è un popolare attore di serie (!) che sta girando a Genova (!) la nuova stagione di un titolo molto amato. Un giorno gli sembra di vedere una fidanzata storica che ha lasciato malissimo e inizia una “caccia alla ex” tra carrugi, alberghi che sono casa e party con sveltine. Ma diventa per lui anche un viaggio dentro – sì, ormai lo sapete – le emozioni: su consiglio della sua co-protagonista (!) inizia a leggere un libro, Quel che provo dir non so del professor Enrico Maria Gobbin, aka il miglior amico di Spollon nella vita reale, LOL. Capite? C’è Spollon nella playlist: Bitter Sweet Symphony dei Verve, Patience dei Guns, Last Nite degli Strokes, Helter Skelter dei Beatles, fino a Karma Police dei Radiohead. C’è Spollon nella solita, riconoscibilissima autoironia e in una certa profondità mai pesante, in una leggerezza diffusa ma pensante (pardon per il gioco di parole). C’è Spollon nella ricerca di parole improbabili da tutto il mondo per dare un nome a emozioni louder than words: Awumbuk, Kaukokaipuu. Sono 150 pagine senza pretese, da leggere al volo, senza quasi accorgersene. E che, soprattutto se siete dei Millennial come il nostro, vi parleranno in maniera particolare, cito solo una frase: “Magari io appartengo a una generazione che non ha voglia di aggiustare le cose rotte, semplicemente non ci riesce, perché non ha tempo, perché corre. Perché scappa”. Spollon su Instagram l’ha presentato con una miscellanea di meme, a partire da Sheldon di Big Bang Theory che si chiede “Perché?! Ma perché?!” a ogni pagina. Più generazionale e spolloniano di così. Non per fare i pippobaudo della situazione, ma noi lo avevamo già sbattuto in prima pagina nella sua prima, vera cover story e lo avevamo già scritto che può fare davvero tutto. E ora aspettiamo che si decida a mettere in cantiere il suo programma tv in stile Graham Norton Show, il titolo c’è già: Spollondì.
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