Sanremo 2023 è la Grande Chiesa (made in Italy) che passa dalla scopa di Morandi e arriva fino al “fermi tutti” di Grignani, da ieri sera però percepito come Madre Teresa (a Rolling ci siamo arrivati prima, l’avevamo preventivamente santificato). La narrazione (scusate) ce l’avevamo davanti fin dal principio, ma ieri finalmente s’è definita, s’è compiuta. Sintesi del Festival e del Paese: un pischello fa un po’ di bordello sul palco e un vecchio arriva con la ramazza a pulire. Per alcuni, il pischello è un anarchico, un rivoluzionario, un Greto Thunberg (no, quello no, ha maltrattato i fiori): boh. Per tutti, il signore che esce e mette in ordine è la rassicurazione sul fatto che, come Festival e come Paese, possiamo ancora tirare avanti. C’è gente giovane, rottamatrice, vaffanculista che fa casino, e poi un governo tecnico che mette a posto. Va sempre così, anche ora il popolo ha votato Giorgia Meloni ma poi, quando vede che bisticcia con Macron (le rose), sospira “Ah, se solo ci fosse ancora Draghi!” (la scopa).
E poi c’è la generazione di mezzo, che a volte cede e mette la croce sul “vaffa” ma poi è contenta se arrivano i banchieri e non finisce come in Grecia. Ieri a Grignani (immenso) è successa la stessa cosa di Blanco (non sentiva in cuffia), solo che ha detto stop, rifamo, “perché ho cinquant’anni e non venti”, e nello stesso momento era pischello e vecchio, complice degli uni e degli altri. En plein, riscatto, santità. Solo che di Grignani ce n’è uno. Sanremo ha sempre avuto, ed evidentemente ha ancora, un problema coi giovani, una volta detti Nuove Proposte: debuttanti che sottoponevano la loro candidatura e poi toccava ai vecchi decidere se ammetterli nella società dei grandi. Del resto, il Sanremo moderno è nato sotto il segno di Pippo Baudo, uno che i giovani li inventava ma poi gli metteva il vestito buono, la giacca di tre taglie più grande, e gli faceva cantare la canzone che sarebbe piaciuta alle nonne. In realtà è così anche oggi, perché [mettere qui la solita frase del Gattopardo]. Però oggi i giovani veri (vabbè) si sono presi classifiche e streaming, qualsiasi cosa valgano e significhino, e si sono confusi nella gara. E noi siamo lì che vogliamo/dobbiamo farceli piacere, dobbiamo dire che bravo questo Lazza che brava questa Ariete, ma poi siamo felicissimi quando esce Ranieri e possiamo cantare “anche dopo il nostro addio l’amore sono ioooooooooo”. La messa (made in Italy).
Dunque, i giovani. Ma Sanremo 2023, come tutti i Sanremo, è anche il razzismo (made in Italy). Il fascismo (made in Italy). Le donne (made in Italy). La politica (made in Italy). La famiglia (made in Italy). La morale (made in Italy). La Ferragni (made in Italy): no, lei è solo Sanremo 2023, ma ci arrivo fra poco. E Sanremo è pure il miglior osservatorio sul giornalismo (made in Italy). I giornalisti, ovviamente divisi tra blanchisti e non (ma soprattutto blanchisti, per fare quelli che comprendono l’esprit du temps), sono la cosa più bella di Sanremo, soprattutto da quando esistono i social e da quando possiamo vedere le conferenze stampa in diretta su RaiPlay. I giornalisti a Sanremo si sentono tutti embedded in Riviera, tutti Christiane Amanpour sotto le bombe, in conferenza stampa citano James Baldwin (giuro) e si spendono per i diritti “delle donne afroamericane nel nostro Paese” (rigiuro), ma sappiamo benissimo che sono lì solo per imparare il balletto di Paola & Chiara e metterlo su Instagram. L’unica giornalista sveglia e dotata, e per distacco, che abbiamo oggigiorno ha dato ai colleghi una lezione che però loro non hanno recepito. Francesca Fagnani è andata sul palco dell’Ariston sapendo e capendo prima che il monologo obbligatorio da declamare in prima serata su Rai 1 avrebbe dovuto scriverlo come le fiction che vanno in prima serata su Rai 1 (cioè Mare fuori). Ma era troppo sofisticato perché la gente, anche quella del suo stesso ramo, comprendesse fino in fondo.
Nessuno, del resto, ha mai capito Sanremo, ma tutti, tutti gli anni, sono lì a spiegartelo (pure io), anche se poi si perdono in un bicchier d’acqua (come quello che avrebbe scatenato una rissa, made in Italy, tra due cantanti in gara nel backstage di ieri sera). Nessuno ha mai capito neanche Chiara Ferragni, dopotutto, ma ti spiegano sempre anche lei. Potete dunque immaginare che combo sia stata Sanremo+Ferragni, non solo per lo share ma anche per gli esegeti da tastiera o macchinetta del caffè. I più indignati dalla letterina di Ferragni sono quelli che la seguono più assiduamente, e che ne sono influenzatissimi. Ferragni lo sapeva e ha fatto la stessa cosa che fa nelle stories: i messaggi facili e subito memizzabili, stavolta stampati su vestiti Dior, e soprattutto quell’essere sé stessa che è sempre filtrato e perciò mette tutti in crisi e in scacco. Impeccabile. Ferragni è l’altra scopa, del sistema e di Sanremo ventiventitré, come dice Amadeus, anzi Ama.
Che è l’unico governo (made in Italy) che pare tenere insieme questo Paese, il “democristiano diventato condottiero” (così lo definisce il Corriere, lui in conferenza stampa gongolava moltissimo) che ha capito che deve dare a Blanco una strigliata, però tenera e comprensiva, e insieme affidarsi a Morandi, insomma deve tenere insieme i giovani e i vecchi, “quando il sole tornerà” e la puttana di Madame, il Presidente della Repubblica (made in Italy) e il politicamente scorretto (made in Italy), gli analogici e i digitali, che ormai son la stessa cosa: Gianni Morandi è forse meno digitale di Chiara Ferragni?
Probabilmente è Amadeus la vera scopa di Sanremo, l’artigiano più della quantità che della qualità che però ha capito tutto, soprattutto questa nostra bulimia “della vista e dell’udito”, come dice il superdirettore Coletta, questo nostro horror vacui, questo scroll infinito come infinite sono le serate sanremesi. Ma adesso basta giovani e vecchi, basta rose e basta scope, stasera ci sono i duetti e finalmente possiamo cantare le cover (made in Italy).